Gianni Alemanno al Tirreno: «La mia vita in carcere come cani abbandonati. Il “codice d’onore” in cella tra fantasmi in attesa di morire»
Le parole dell’ex sindaco di Roma detenuto a Rebibbia in seguito all’inchiesta Mondo di mezzo: «Negli istituti penitenziari c’è un’emergenza che nessuno vuole vedere»
“Cani abbandonati sull’autostrada”, è così che Giovanni “Gianni” Alemanno, ex ministro delle Politiche agricole e forestali (2001-2006) e sindaco di Roma da 2008 al 2013, ha descritto lo stato in cui versano i detenuti italiani. L’ex primo cittadino, dal 31 dicembre 2024, sconta nel carcere di Rebibbia un residuo di pena di un anno e 10 mesi, a cui era stato condannato nel 2022 per traffico di influenze illecite, nell’inchiesta “Mondo di mezzo”, originariamente denominata “Mafia Capitale”. Ed è proprio con l’onorevole che abbiamo parlato della realtà carceraria, spesso denunciata dallo stesso Alemanno attraverso quello che definisce “Diario di cella”.
Cosa l’ha portata a usare un’espressione così forte?
«È solo la realtà. Sembra che a nessuno interessi quello che sta accadendo nelle carceri italiane o, meglio ancora, sembra che nessuno voglia rendersi conto di questa situazione. Come se riguardasse solo una realtà marginale, popolata da reietti. In realtà, oggi, la macchina della giustizia italiana è così messa male che qualsiasi cittadino potrebbe ritrovarsi nelle patrie galere, senza sapere bene il motivo. E vi garantisco che si tratta di un’esperienza kafkiana. Io e Fabio Falbo, un altro detenuto che si è laureato in carcere poco tempo fa, abbiamo scritto un libro dal nostro reparto intitolato “L’emergenza negata. Il collasso delle carceri italiane”, pubblicato attraverso Amazon, in cui cerchiamo di descrivere questa situazione. Uno scenario segnato da un sovraffollamento che, mentre vi scriviamo, sta raggiungendo in tutta Italia il 140% con punto del 200% a San Vittore e a Regina Coeli, due carceri che sono state dichiarate parzialmente inagibili per un crollo e un incendio, rischiando di fare molte vittime tra le persone detenute e gli agenti della penitenziaria».
Secondo lei come si dovrebbe affrontare la condizione dei detenuti nelle carceri italiane? E quali sono gli errori commessi dalla politica?
«La politica non sta commettendo errori, semplicemente non sta facendo nulla. Quando il tema cresce sui media, magari, per l’ennesimo suicidio, si organizza qualche riunione governativa con allegata conferenza stampa e si promettono interventi assolutamente irrealizzabili. Su questo il ministro Nordio è diventato un maestro: è stato capace di disertare - lui e i suoi sottosegretari - perfino il Giubileo dei Detenuti. Un evento dove papa Leone ha rinnovato la richiesta di papa Francesco per un provvedimento di clemenza che riduca il sovraffollamento nelle carceri. I suicidi sono la punta di un iceberg, di un disagio estremamente diffuso e di istituti di pena ormai fuori controllo per carenza di personale. Anche quando le motivazioni di suicidio sono assolutamente personali, non è ammissibile che una persona detenuta si impicchi in cella senza che nessuno se ne accorga».
Nel suo “Diario di cella” ha parlato anche del rapporto tra le persone detenute e i loro familiari, soprattutto con i figli. Secondo lei come e quanto è tutelato questo legame?
«Esiste una sentenza della Corte costituzionale che riconosce il “diritto all’affettività” alle persone detenute, ovvero la necessità di costruire all’interno delle carceri delle strutture che consentano incontri intimi coi partner. Ebbene, sono passati quasi due anni da quella sentenza, ma la grande maggioranza degli istituti di pena non hanno ottemperato a questo obbligo. Più in generale, salvo qualche esempio meritorio, manca il contesto anche per incontrare in modo dignitoso i propri figli e i propri genitori. Con tutte queste mancanze si appesantisce una drammatica realtà: non sono solo le persone detenute a pagare la galera, ma la pagano anche e soprattutto i familiari. Insomma, non bisogna inventarsi nulla, basterebbe seguire le indicazioni della Corte costituzionale e i principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo».
Lei ha parlato anche di un codice d’onore tra i detenuti. A suo avviso, come e quanto incide questo “regolamento” sulla funzione rieducativa della pena?
«È chiaro che non è accettabile che qualcuno, tantomeno le persone detenute, si faccia giustizia da solo, con le proprie mani. Ma ho voluto rimarcare l’esistenza di questo codice d’onore tra le persone detenute. Un codice, secondo cui, non si può fare violenza contro le donne, i bambini, gli anziani e i disabili, perché dimostra che c’è un fondo di umanità, un senso del limite, che non si vuole travalicare. La funzione rieducativa della pena dovrebbe far leva su questo fondo di umanità, per generare una voglia di riscatto per poi saperla riconoscere e premiare. C’è rieducazione quando le persone detenute vengono trattate in base a come si comportano, quando sanno che se compiono un percorso di consapevolezza e di ricostruzione di una vita che, attraverso il lavoro, rientri nella legalità, potranno accedere alle pene alternative e riacquistare la libertà».
Qual è l’episodio più forte che l’ha colpita particolarmente per la sua rudezza?
«I momenti più duri, che si ripetono ogni giorno, sono quando incrocio delle persone detenute talmente ridotte male che non dovrebbero stare in galera. Per l’età o per le malattie. C’è Antonio che ha 88 anni e non c’è verso di mandarlo ai domiciliari, nonostante la Cassazione abbia stabilito che dopo i 70 anni non si debba rimanere in carcere. C’è un altro detenuto che gira col sacchetto del catetere in bella vista attaccato ai pantaloni, ma non riesce a farsi curare dal tumore che ha alla prostata. Ci sono altri che hanno la saccastomia di raccolta delle feci attaccata all’intestino e che devono pulire questa sacchetta in cella perché in infermeria non lo fanno. La burocrazia, il sovraffollamento, la carenza della rete sanitaria, l’indifferenza e la superficialità di molti magistrati, condannano queste persone a condizioni degne di prigioni ottocentesche. Qualcuno siamo riusciti a salvarlo con le nostre denunce, ottenendo di mandarlo in ospedale o ai domiciliari, ma troppi girano come fantasmi in attesa di morire».
Come l’ha cambiata la vita carceraria? E in che modo intende affrontare queste tematiche in futuro?
«Qualche malizioso ha detto che sono dovuto finire dentro per ricordarmi dei problemi delle carceri. Non è vero, io qui a Rebibbia ci sono stato anche quando avevo vent’anni per la mia militanza politica, e da allora mi sono sempre battuto per i diritti delle persone detenute, come hanno testimoniato Sergio d’Elia e Rita Bernardini, esponenti radicali di “Nessuno tocchi Caino”. Quindi continuerò a farlo, perché, lo ripeto ancora una volta, quella contro l’emergenza carceraria italiana non è una battaglia marginale: è lo specchio di tutte le battaglie sociali del nostro Paese. Questa esperienza ha generato in me un bisogno di autenticità, di giustizia e di verità, che si è fatto più profondo e radicale. E ha triturato vanità e piccole ambizioni personali».
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