Il Tirreno

Prato

La sentenza

Prato, l’ingegner Frasconi condannato a risarcire oltre due milioni di euro

di Pietro Barghigiani
Prato, l’ingegner Frasconi condannato a risarcire oltre due milioni di euro

Una vicenda giudiziaria che si è trascinata per 20 anni fino al sorprendente epilogo di questi giorni. La sentenza per due incidenti mortali a Iolo: «Mancava il semaforo»

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PRATO. Una vecchia storia di morti, dolore e responsabilità che per venti anni è rimbalzata nei Tribunali tra Prato, Firenze e Roma. E che in un’oscillazione di sentenze, tra condanne e assoluzioni, un recente verdetto attualizza i drammi del 2005 quando due pensionati vennero travolti e uccisi in via Manzoni a Iolo all'altezza dell'immissione della pista ciclabile “Alfredo Binda”. Un punto dolente per la sicurezza stradale.

Condannato nel 2010 per omicidio colposo in primo grado a 8 mesi, per ciascun episodio, l’ingegner Lorenzo Frasconi, 73 anni, ex dirigente in municipio ed ex consigliere comunale della lista civica “Gianni Cenni sindaco”, nel 2012 venne assolto in appello con la formula “perché il fatto non sussiste”. I parenti delle vittime fecero ricorso in Cassazione e da Roma, una prima volta nel 2014, arrivò l’annullamento della sentenza con rinvio a una nuova Corte d’Appello solo per stabilire le statuizioni civili. Nel 2018 la sentenza respinse le ragioni degli eredi che tornarono ancora davanti alla Suprema Corte che, di nuovo, dispose l’ennesimo processo d’appello.

È quello che si è concluso di fronte quarta sezione civile di Firenze che ha condannato l’ingegner Frasconi a risarcire con oltre 2,1 milioni di euro (spese di lite incluse) familiari e parenti di Amelia Bini, 68 anni, morta il 21 gennaio 2005, e Ugo Costantino, 81 anni, identica sorte il 4 novembre dello stesso anno.

Presidente dell’associazione Emmaus per 20 anni, e ancora nel consiglio direttivo della storica realtà del volontariato pratese, la “colpa” dell’ex dirigente comunale sarebbe stata quella di «disporre la realizzazione dell’opera (pista ciclabile ndr) in difformità e aprendola all’uso pubblico, violando la normativa cautelare specifica, nonché aver agito in spregio alle regole di diligenza, prudenza e competenza professionale a cui era tenuto in ragione della posizione di garanzia rivestita nella doppia qualità di dirigente dell’amministrazione comunale e di progettista e diretto dei lavori della pista ciclabile».

Tutto ruota sull’assenza dell’impianto semaforico a chiamata, previsto nel progetto, ma mai realizzato. Per questioni economiche e perché avrebbe rallentato il traffico.

Frasconi nel procedimento penale si era difeso sostenendo che riguardo «alla realizzazione dell’impianto semaforico, avevano deciso di non realizzare lo stesso, tenuto conto di alcune criticità che erano emerse, quali il punto di presa di corrente lontano, il funzionamento a pannelli solari, la previsione del non funzionamento notturno, nonché il fatto che nel frattempo l’amministrazione aveva già approvato il sottopasso, la cui realizzazione avrebbe vanificato un impegno anche economico sostenuto per il semaforo con il pericolo di responsabilità contabile del medesimo (Frasconi ndr)».

Una tesi che la Corte d’Appello non ha ritenuto di accogliere per sgravare l’allora dirigente dalle responsabilità di aver dato il via libera a una pista ciclabile esponendo gli utenti a gravi rischi per la loro incolumità. La conclusione dei giudici è che “i presìdi di sicurezza previsti nel progetto esecutivo avrebbero impedito il verificarsi di entrambi i sinistri, obbligando entrambi gli automobilisti a tenere una velocità prudenziale nell’avvicinarsi al punto di intersezione di via Manzoni con la ciclabile e a fermarsi al semaforo rosso”.




 

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