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Il caso

L’indagine parallela della Cina sulla “guerra delle grucce” a Prato

di Paolo Nencioni

	Il tentato omicidio di Chang Meng Zhang al Number One di via Scarlatti
Il tentato omicidio di Chang Meng Zhang al Number One di via Scarlatti

L’ambasciata interroga i testimoni chiave ma Pechino non spiega e non risponde alla rogatoria internazionale della Procura

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PRATO. L’ambasciata cinese a Roma ha condotto una sorta di indagine parallela sui mandanti del tentato omicidio di Chang Meng Zhang, l’imprenditore cinese accoltellato il 6 luglio dell’anno scorso all’interno del locale notturno Number One di via Scarlatti nell’ambito della cosiddetta “guerra delle grucce”, ma a distanza di mesi la Procura di Prato non ha ottenuto risposte da Pechino su chi fossero i funzionari inviati a Prato per fare indagini. E soprattutto perché.

È questo uno dei passaggi più delicati, e al momento inspiegabili, di un’indagine che punta a capire chi ci sia dietro alla “guerra delle grucce”, che poi è diventata una “guerra della logistica” per il controllo del settore di trasporti di merce in tutta Europa.

L’indagine parallela

Tra dicembre e gennaio in Procura è stato sentito il fratello di Chang Meng Zhang, che avrebbe fatto i nomi dei possibili mandanti della spedizione punitiva al Number One. Successivamente l’uomo avrebbe riferito alla Procura di essere stato avvicinato da funzionari dell’ambasciata cinese a Roma che gli hanno chiesto quali nomi avesse fatto. Nomi che poi sarebbero stati trasmessi per qualche motivo alle Dogane cinesi. Iniziativa quantomeno irrituale, e comunque un’interferenza indebita nelle indagini di uno stato sovrano. Per questo il procuratore Luca Tescaroli ha trasmesso una rogatoria internazionale a Pechino chiedendo chi fossero i funzionari dell’ambasciata che hanno parlato col testimone della sua inchiesta (non solo con lui, anche con altri). E se ci fosse un fascicolo aperto anche in Cina. A distanza di dieci mesi nessuna risposta è arrivata dalle autorità cinesi, dunque a questo punto si può essere certi che non arriverà.

Gli esecutori materiali

L’indagine sull’aggressione al Number One ha portato quasi subito all’arresto di cinque dei sei componenti del commando omicida, fermati in Calabria e in Sicilia. Il sesto, Nengyin Fang, ex militare dell’esercito cinese, è stato rintracciato all’inizio di aprile a Padova ma alla metà di settembre, alla vigilia del processo con rito abbreviato, è stato scarcerato perché non è arrivata in tempo la traduzione dall’italiano al cinese dell’ordinanza di custodia. Trasferito nel Centro per il rimpatrio di Gorizia, in questi giorni è stato di nuovo arrestato e comparirà davanti al giudice il prossimo 17 ottobre.

I mandanti

Ma l’inchiesta sul tentato omicidio di Chang Meng Zhang punta anche a individuare i possibili mandanti di quell’aggressione, che potrebbero spiegare la genesi e le dinamiche della guerra della logistica cinese, ora in fase di stallo. Se è vero che già a gennaio sono stati fatti i nomi dei possibili mandanti, evidentemente ancora non sono state trovate le prove per esercitare l’azione penale nei loro confronti, ammesso che siano ancora in Italia. Di sicuro non è più in Italia Chang Meng Zhang, che ha preferito riparare in Cina quando ha saputo che il sesto componente del commando era stato scarcerato. Il fatto che fosse rinchiuso in un Cpr evidentemente non lo ha tranquillizzato.

Il sistema

Quando è stato sentito come persona informata sui fatti, l’imprenditore attivo nel settore della produzione di appendiabiti avrebbe raccontato agli inquirenti anche qualcosa sui meccanismi bancari che consentono gli imprenditori cinesi di fare lucrosi affari sfruttando il “Chinese underground bank system”, le triangolazioni grazie alle quali la merce arriva in Europa in regime di sospensione dell’Iva in virtù di una norma dell’Unione (il Regime 42) che lo consente, a determinate condizioni.

Il precedente

Ma questa indagine parallela messa in piedi dall’ambasciata cinese è una cosa che non può non preoccupare. Anche perché arriva tre anni dopo il caso della “Fuzhou Police Overseas Service Station”, l’ufficio aperto in via Orti del Pero che sembrava fosse una stazione di polizia cinese all’estero e probabilmente serviva a rintracciare i cinesi riparati in Europa dopo aver truffato ingenti somme di denaro in patria.

L’impressione è che la lunga mano di Pechino voglia comunque essere informata di tutto quanto accade nelle comunità cinesi sparse per il mondo. Una cosa che verosimilmente rientra nei compiti di qualsiasi ambasciata, almeno fino a quando non va a interferire con indagini in corso da parte della magistratura di un altro stato. In questo caso testimonianze i cui verbali sono stati secretati proprio per evitare fughe di notizie.

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