Castelnuovo, la testimone: «Le grida di aiuto dei deportati ebrei piantate nel cuore finché vivrò»
Vilma Papi, 94 anni, unica testimone rimasta degli internati liberi in Garfagnana. Furono tutti mandati a morire ad Auschwitz sullo stesso treno di Liliana Segre
CASTELNUOVO. «Rivedere la scena in cui la famiglia che ospitavamo viene portata via è stato di una drammaticità straziante. Ricordo grida e immagini ogni giorno, come se fosse successo ieri».
A Vilma Papi, 94 anni vitali compiuti il 31 dicembre, la memoria non fa difetto. E quel valore, un racconto orale ripescato dai tempi della guerra, dopo essere stato materiale per un libro (“L’orizzonte chiuso”), è diventato contributo primario nel docu-film con Neri Marcorè (“Per un nuovo domani”, venerdì su Rai 3, 1.094.000 spettatori, 5,7% di share) per raccontare la storia dei 70 ebrei “internati liberi” a Castelnuovo di Garfagnana dal 1941 al 1943 prima della deportazione ad Auschwitz sullo stesso treno in cui si trovava Liliana Segre. Ritornarono in due. Una vicenda minima che diventa tessera nel mosaico della grande storia.
Nel film è la piccola Vilma, il cui padre, nella proprietà di famiglia nel borgo di Antisciana, ospita la famiglia ebrea tedesca degli Schnapp. Marito, moglie e la figlia Gerda, una 17enne che diventa l’amica di quella bambina curiosa che all’epoca aveva 12 anni e che nel dopoguerra diventerà ostetrica. Aiutare a dare la vita dopo essere stata testimone delle infamie della Shoah.
Le scene sono state girate negli stessi luoghi di proprietà della famiglia Papi. Dalla villa all’ex fabbrica di fronte adibita a ricovero per gli internati ebrei, passati dalla segregazione del 1941 alla deportazione nel dicembre del 1943.
Signora Vilma le è piaciuto il film?
«Sì. Sono rimasta emozionata. Direi sconvolta dalla bellezza e dalla delicatezza del racconto. Viene restituito il clima di quel periodo tra soprusi e paura».
Ha rivissuto la scena della famiglia portata via dai fascisti. Lei alla finestra assiste e chiede a suo padre cosa sta succedendo. Andò proprio così?
«Alla lettera. Mi è rimasta impressa da allora e mai la scorderò. Sentivo Gerda che urlava “Mamma, aiuto”. E la madre “Salvate Gerda, salvate Gerda”. Quelle voci sono ancora dentro il mio cuore. E ci rimarranno finché campo».
Di fatto lei è l’ultima testimone di una storia rimasta per anni confinata a livello di studi locali, ma che da venerdì è conosciuta in tutta Italia.
«Credo proprio di sì. Sono stata testimone oculare non solo di quel periodo, ma anche del momento in cui quella famiglia che era stata da noi per quasi 2 anni venne prelevata tra le urla di disperazione».
Come passavate le giornate con quella che nel film diventa la sua amica?
«Loro non si potevano spostare. Il padre la mattina andava a piedi a Castelnuovo percorrendo oltre 1 km. Gerda parlava un italiano abbastanza comprensibile. Passavamo gran parte delle giornate insieme. Lei mi voleva insegnare il tedesco. I numeri dall’uno al dieci e qualche parola ero riuscita a impararli».
Come mai la sua famiglia ospitò la famiglia ebrea?
«All’epoca venne imposto a chi aveva abitazioni sfitte di metterle a disposizione per queste situazioni. Allora si doveva obbedire e stare zitti».
Dopo la guerra ha mantenuto contatti con persone ebree?
«Qualcuno della zona di Castelnuovo».
Cosa ha fatto dopo quel tragico giorno del dicembre 1943 in cui i fascisti portarono via gli Schnapp e tanti altri finirono sui treni diretti nei lager?
«Finita la guerra mi sono diplomata in ostetricia a Pisa. Ho lavorato prima all’ospedale di Lucca e poi come ostetrica condotta a Castelnuovo. Mi sono sposata, sono diventata mamma. Purtroppo, ho perso mio marito, farmacista, quando aveva 29 anni. Dopo la pensione ho continuato come libera professionista. Fino a tre anni fa facevo ancora consulenze per le famiglie che mi conoscevano. Poi mi sono rotta il femore e ho dovuto dimenticare l’auto. Ma ho fatto anche altro che mi piacerebbe ricordare».
Dica.
«In tutti questi anni, chiamata dai professori, ho partecipato a incontri nelle scuole per portare la mia testimonianza ai giovani su quello che era successo durante la guerra».
La memoria come patrimonio da diffondere e tramandare.
«Sì. E il film sulla storia degli ebrei di Castelnuovo in questo senso rappresenta uno splendido contributo».l