«Quando i carabinieri ci dissero che il babbo era morto in mare»
Graziano Buscioni ricorda il padre granatiere sulla Crispi «Avevo 6 anni quando mi portarono a vedere la sua tomba»
VINCI. «I carabinieri bussarono alla porta di casa e chiesero di mio zio Armando. Era un giorno di maggio del 1943». Esordisce così Graziano Buscioni, che all'epoca aveva sei anni, raccontandoci la storia di un padre affettuoso che troppo presto lasciò la sua famiglia per rispondere al senso del dovere. Il padre di Graziano si chiamava Averardo Buscioni, abitava da sempre a Spicchio, lavorava come operaio alla fornace, la fabbrica di mattoni.
Averardo, classe 1907, il servizio militare lo aveva svolto dal febbraio del 1927 al settembre 1928. Alto, di bell'aspetto, naturalmente elegante, lo avevano chiamato a far parte di un corpo prestigioso, i Granatieri di Sardegna, nel primo reggimento a Roma. E lui aveva risposto adempiendo "con fedeltà ed onore" alle funzioni assegnategli, così come si legge dal foglio matricolare.
La vita per Averardo scorreva fra il lavoro e la famiglia, e nel 1937 arrivò anche il matrimonio con Irene Giacomelli. Ma il destino per il granatiere aveva riservato tante brutte sorprese. Il 22 luglio del 1937 nacque il figlio Graziano, ma subito la giovane madre venne ricoverata per le complicanze del parto; dopo una settimana di agonia morì al San Giuseppe di Empoli. «La famiglia - racconta Graziano Buscioni oggi - è stata per me straordinaria. Non avendo conosciuto mia madre, sono cresciuto con i miei zii ed i miei nonni». Averardo lavora, e si dedica a quel figlio piccolo con tutta l'anima e il cuore. «Ricordo che mio padre - continua Graziano - mi aveva costruito una scatola, con tante palline tutto in terracotta; erano i miei giochi».
Nel 1940 nel mese di ottobre Averardo, giovane vedovo ormai da alcuni anni, si risposa con Palmira Profeti. L'Italia è ormai in guerra da alcuni mesi, e nubi minacciose si addensano sulla testa degli italiani. Inaspettata, nel gennaio del 1943, arriva la cartolina di richiamo alle armi anche per Averardo, pur trentaseienne. Il dovere chiama, il granatiere risponde, e si presenta al primo reggimento Granatieri il 9 febbraio del 1943. Con la morte nel cuore di chi lascia la moglie e un figlio di sei anni a casa durante la guerra. E scrive a casa e agli amici. Graziano quelle lettere le conserva tutte, e dalla lettura affiorano gli affetti, le amicizie, la commozione. "Coraggio amico, il giorno in cui tu tornerai a casa verrà anche per te, stai tranquillo che anche i tuoi e soprattutto tua moglie, si sono rassegnati e ora pregano per la tua salute e per quella di chi veglia ai confini della Patria", gli scrive l'amico Daneo Salvadori. Poi le lettere dei familiari. "Pensa, a casa tu hai moglie e un figlio, e non si sa se ce n'è un altro per la strada. Io sono molto disperata. E se la Madonna mi desse di essere incinta, mi salvi e mi dia forza e coraggio" scrive la moglie Palmira preannunciando fra le lacrime ad Averardo ai primi di marzo del 1943 la notizia dell'attesa di un figlio. "Parliamo di una cosa e dell'altra con il bambino (Graziano, ndr), e scherziamo, ma poi mi sento mancare il fiato e serrare la gola. Il mio pensiero sei tutto te e questa creatura che mi hai lasciato fra le braccia e uno nel mio seno". Ma i carabinieri bussarono alla porta, era il 9 di maggio del 1943. Il corpo senza vita del granatiere di Sardegna Averardo Buscioni appartenente al primo reggimento, terza compagnia fucilieri, era stato ritrovato sulle spiagge liguri, a Chiavari. Qualcuno doveva andare per il riconoscimento del cadavere. «Partirono in tre, mio zio Armando - ricorda commosso Graziano - e due amici. Mi ricordo bene il picchetto d'onore dei Granatieri al funerale di mio padre a Spicchio. Era il 16 luglio del 1943. C'era tantissima gente, e mi portarono a deporre un fiore sulla sepoltura». Fu l'ultimo saluto. Averardo faceva parte di un contingente di granatieri "da sbarco" imbarcato sulla nave "Francesco Crispi", un mercantile riadattato per trasporto truppe. La nave aveva lasciato Livorno il 18 aprile del 1943, diretta in Corsica, dove i granatieri, insieme a reparti di artiglieria e del genio, avrebbero rafforzato le postazioni italiane su Bastia. Il 19 aprile, alle 14,30 al largo dell'isola d'Elba, a 18 miglia da Punta Nera, un sommergibile inglese, il Saracen, era in agguato.
Del convoglio, formato dalla Crispi con 1300 uomini a bordo, dalla nave trasporto "Rossini", da alcune navi ausiliarie e scortato dal cacciatorpediniere "La Masa", fu colpita la Crispi. Tre micidiali siluri andati a segno fecero scomparire negli abissi di un mare profondo 534 granatieri e 409 militari di altre armi. Pochi si salvarono. Anche la corsa di Averardo era finita. Lui da buon spicchiese sapeva nuotare, ma fu inutile: era stato colpito mortalmente alla testa durante l'affondamento. Lo racconterà alla famiglia un commilitone sopravvissuto presente ai funerali. Il 10 ottobre del 1943 nacque una bambina: la chiamarono Averarda, ed era la figlia del granatiere di Spicchio. La speranza aveva vinto ancora sulla morte.