La cronaca
Il precariato diffuso nel turismo
E con l’avanzata degli Airbnb la rendita si sostituisce al reddito
I numeri lo dicono con chiarezza, ormai. Il settore turistico sta diventando uno dei terreni di coltura del lavoro povero.
Le assunzioni avvengono quasi interamente attraverso contratti di durata brevissima, ben oltre la logica della stagionalità, e il lavoro a tempo indeterminato, nelle nuove assunzioni, fatica ad arrivare al 10%. In alcune realtà, come quella fiorentina, si ferma al 5%, ma in quasi tutte le città d’arte le percentuali non risultano molto diverse.
Le ragioni di un simile fenomeno sono numerose; una, tuttavia, sta rivelandosi particolarmente evidente. Il turismo alberghiero ed extra alberghiero, così come, in larga misura, la ristorazione, soffrono la concorrenza feroce degli Airbnb che stanno trasformando intere aree residenziali in attività di pernottamento senza, in pratica, alcun vincolo, senza alcun reale indotto, senza una vera occupazione e con effetti pesantissimi sulla qualità del lavoro e, più in generale, sul tessuto urbano.
A Firenze, ci sono 13 mila alloggi iscritti nella piattaforma per le locazioni turistiche, e numeri impressionanti si stanno manifestando in moltissimi centri italiani. Tali appartamenti mantengono la destinazione d’uso residenziale, non hanno bisogno di rispettare quasi nessuna regola igienica, non hanno bisogno di personale e pagano il 21 per cento di aliquota. Si tratta di una rendita formidabile, quasi sempre goduta da proprietari assai benestanti; una rendita che sottrae enormi spazi per gli studenti e per lavoratori in trasferta, non produce gettito e distrugge la filiera turistica. Qual è la ricaduta reale di questo fenomeno? Limitatissima, perché sono sempre di più gli immobili comprati da fondi finanziari e destinati a tale scopo, ed estremamente distorsiva del funzionamento del settore turistico, dove spariscono intere filiere alberghiere e dove la precarietà e l'abbattimento del costo del lavoro sono la via maestra per cercare di fronteggiare l’avanzata aggressiva di Airbnb.
In tale ottica può essere utile una considerazione più generale, valida per numerose regioni del Centro-nord. I comparti manifatturieri stanno progressivamente riducendo il numero degli addetti, che sono nell’insieme quelli con retribuzioni contrattuali più alte, e stanno vivendo una frammentazione delle unità produttive, con la conseguente produzione di un minor valore aggiunto. Se questa perdita di peso del manifatturiero trova una debole risposta nella crescita di un settore turistico dominato dalle unità abitative residenziali che svolgono funzioni ricettive, è evidente che gli effetti sul Pil nazionale saranno tutt’altro che significativi. Il rischio reale è, in simile ottica, che si ampli il perimetro di quell’economia informale e grigia che non determina gettito fiscale e non genera nuovo reddito, ma si limita a fornire una rendita.
In alcuni casi tale rendita può servire a integrare i redditi bassi dei piccoli proprietari, ma, come ricordato, più di frequente finisce nel determinare i profitti di grandi proprietari di complessi immobiliari che snaturano i prezzi degli affitti, facendoli lievitare.
A livello globale, il fenomeno ha un risvolto ancora più pesante perché i principali azionisti di Airbnb Inc. sono i grandi fondi finanziari, a cominciare da Vanguard che, guarda caso, stanno comprando, a prezzi stracciati i grandi alberghi in giro per il mondo. Non è certo un caso che i “nuovi” azionisti di Hilton e di Marriot, le principali catene mondiali sono gli stessi grandi fondi presenti in Airbnb. Se a ciò aggiungiamo che esiste un monopolio di fatto delle piattaforme host, si capisce bene l’impatto sociale ed economico delle trasformazioni in corso nel mondo del turismo.
*Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa