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Ricalcolo delle pensioni, tra delusi e beffati si profila una valanga di ricorsi. Ecco chi perde e chi guadagna

di Sara Venchiarutti
Ricalcolo delle pensioni, tra delusi e beffati si profila una valanga di ricorsi. Ecco chi perde e chi guadagna

I nuovi meccanismi di rivalutazione degli assegni colpiscono soprattutto il ceto medio. Gambineri (Spi Cgil): «Da valutare se il metodo a scaglioni è costituzionale o no»

05 gennaio 2023
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Non chiamatele pensioni “alte”. Secondo i sindacati è la fascia media quella più colpita. E affondata dal nuovo meccanismo di rivalutazione, e cioè l’adattamento al caro vita, degli assegni pensionistici, entrato in vigore dall’inizio di quest’anno con la Manovra del nuovo governo. E altro che adeguamento. «Gli assegni dai circa 1.400 euro netti in su – denuncia Annalisa Nocentini, segretario generale Uil pensionati Toscana – hanno subìto un taglio reale, conclamato, che parte da 40 euro per arrivare anche a 100 euro. È questa la perdita reale netta al mese». Che in un anno si può tradurre anche in 1.200 euro.

Lontani i tempi “d’oro” della classe media. Sempre più impoverita dai continui aumenti senza avere un bilanciamento. «Mica siamo un bancomat», dice Alessio Gramolati, segretario Spi (Sindacato pensionati italiani) Cgil Toscana. «In questa manovra – sottolinea – si continua a prelevare dalle pensioni, come negli ultimi anni». Ma non si lascerà tutto così senza «combattere».

I (possibili) ricorsi

Il nodo del problema riguarda il metodo di calcolo adottato per la rivalutazione. E cioè non più progressivo, come si faceva in precedenza, ma a fascia. In pratica la percentuale di rivalutazione, che decresce a mano a mano che gli importi (divisi in sei fasce) salgono, va applicata all’intero importo.

«Stiamo valutando con i legali – spiega Giancarlo Gambineri, coordinatore regionale del dipartimento previdenza Spi Cgil – se questo metodo per scaglioni sia costituzionalmente legittimo». E se ci fosse lo spazio giuridico, via a una serie di ricorsi e contenziosi dei singoli da presentare al giudice. «È ancora un’ipotesi – frena Gambineri – quindi aspettiamo prima di dire “venite tutti a fare i ricorsi”. Io penso che ci sia margine, anche se prima di tutto dobbiamo aspettare l’analisi giuridica e vedere poi come muoversi».

In ogni caso alla base c’è il principio dei “due pesi, due misure”. «In pratica chiediamo – continua Gambineri – se sia illegittima che la rivalutazione non si faccia come nel passato, e cioè con un primo importo di base rivalutato allo stesso modo per tutti, e poi progressivamente ridotto per le somme restanti successive». In pratica «se ho una pensione – spiega – a 2.100 euro me la rivaluti piena. Se prendo invece 2.300 mi rivaluti con una percentuale più bassa non solo il “pezzetto” dei 200 restanti, ma l’intero importo. Ma allora anche nella prima parte prendo di meno rispetto all’altro che ha la pensione un pochino più bassa. Sono due criteri diseguali».

I beffati

E alla fine si scontenta un po’ tutti. Quelli con le pensioni più alte, che beneficiano di un tasso di rivalutazione molto più basso rispetto a quella tarata sull’inflazione (da 7,3 a 2,33%). Anche se «a chi ha 5mila euro al mese non importa quasi nulla della rivalutazione. Ma – dice Stefano Nuti, segretario generale Toscana della Federazione nazionale pensionati (Fnp)della Cisl – a chi ne ha 2.800, per fare un esempio, interessa eccome». Ma i più colpiti, in termini relativi, sono le fasce medie. «Chi si aspettava una sorpresa positiva in busta – spiega Nocentini (Uil) – si è trovato invece un taglio rispetto ai metodi di calcolo precedenti. A partire da 40-50 euro netti. Il che significa una spesa ogni tre giorni. Con questa cifra prima la spesa poteva essere settimanale, ma adesso con i prezzi aumentati nemmeno quello. Se poi si pensa che la pensione media di una carriera lavorativa si aggira attorno a 1.400 euro, significa andare a colpire una fetta di popolazione notevole».

Quelle che hanno avuto la rivalutazione più alta, oltre l’indice inflazionistico, sono le minime (525,38 euro), in particolare per gli over 75, che in quest’ultimo caso sfiorano i 600 euro (come si può vedere nella tabella in alto a sinistra). Operazione che, avverte Nocentini, «non è stata a costo zero, ma a detrimento delle pensioni definite “alte”, in realtà medie». E tra l’altro «alla fine – prosegue – non si soddisfa nemmeno il bisogno primario, perché con 600 euro mensili non si vive bene». Ora, con l’aumento del costo della vita, «gli assegni prima considerati medi, come 1.400 euro, ora sarebbero una pensione minima per vivere dignitosamente», conclude Nocentini.

Insomma, di fatto «la maggior parte delle fasce – sottolinea Gramolati – questo adeguamento all’inflazione non ce l’ha. Persone che aspettavano da dieci anni di avere un adeguamento si trovano depauperate di questo diritto. L’attuale governo ha infatti determinato unilateralmente la riduzione di un adeguamento già pattuito con il governo Draghi dopo dieci anni di sospensione».

Il tavolo previdenziale

Intanto, insieme alle altre sigle Cgil e Uil, «il 19 gennaio – annuncia Nuti (Cisl) – partirà un tavolo con il governo sulla riforma previdenziale. Vanno trovate delle regole certe, e adatte alla situazione attuale, su quando si andrà in pensione. Non è possibile che ogni anno si cambi. Il problema è pensare a una seria riforma previdenziale che pensi anche ai giovani. Ma bisogna calendarizzare anche un altro incontro sulla riforma fiscale, perché non è pensabile che debbano pagare l’Irpef solo pensionati e dipendenti».

* Aumento temporaneo valido per il solo 2023

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