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L'intervista

Gianmarco Tognazzi: «Io e Beatrice Bracco, la donna grazie alla quale ho fatto l’attore»

di Clarissa Domenicucci
Gianmarco Tognazzi: «Io e Beatrice Bracco, la donna grazie alla quale ho fatto l’attore»

L’attore e il cinema: una carriera decollata senza l’aiuto di papà: «Con i suoi metodi lei mi ha fatto capire come si costruisce un personaggio»

06 dicembre 2023
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«Sono stati due gli incontri che mi hanno indirizzato la vita: quello con mia moglie da un punto di vista sentimentale e con Beatrice Bacco che ha cambiato la mia vita artistica. Incredibile no? La svolta nella professione non è arrivata con mio padre come chiunque sarebbe portato a credere; fino all’incontro con Beatrice non avevo capito una mazza di questo lavoro». A parlare Gianmarco Tognazzi, figlio del grande Ugo, a sua volta attore con alle spalle numerosi film.

Partiamo da lontano. Cosa non aveva capito del mestiere dell’attore?

«Che fare l’attore non è preoccuparsi della memoria, non è saper dire due battute, ma lavorare alla costruzione del personaggio, ogni volta diverso. Beatrice arriva a limare le mie consapevolezze, cambia la mia prospettiva artistica fino a farmi riappacificare inconsapevolmente con mio padre, che finalmente si convince: mio figlio può fare questo lavoro».

Frequenta il set fin da piccolissimo insieme a suo padre Ugo, “ma così per giocare al cinema, mica era recitare quello”, ci tiene a sottolineare.

«Ugo mi coinvolgeva nei suoi film per stare insieme, per recuperare tempo e assenze».

Poi si cimenta in piccoli ruoli mentre continua a lavorare come aiuto regia e assistente di studio. Su set ma lato troupe: voleva prenderla alla larga?

«Ero convinto che la strada per capire cosa volessi fare fosse imparare prima i mestieri tecnici del cinema: il percorso che aveva fatto Ricki. Poi sul set può arrivare da un momento all’altro l’occasione; una battuta, una sostituzione…»

A 20 anni conosce Beatrice Bracco…

«Kim Rossi Stuart, amico di sempre e collega di agenzia da Cristiano Cucchini, frequentava già i corsi di recitazione di Beatrice Bracco e Francesca De Sapio fondati sul metodo Stanislavskij/Strasberg: una novità assoluta in Italia, dove se volevi fare l’attore potevi scegliere soltanto tra l’Accademia di Arte drammatica e Centro Sperimentale, entrambe incentrate su un metodo più classico. Tra le primissime a portare questo nuovo metodo in Italia, venivano guardate con diffidenza dagli addetti ai lavori. Invece il loro lavoro mi incuriosì subito, era una grande opportunità».

Chi era la Bracco? Di lei esistono a malapena due foto eppure era conosciutissima nell’ambiente.

«Un’ex attrice e regista argentina che, una volta trasferitasi in Italia, ha fondato questa scuola sul modello dell’Actors Studio crescendo un’intera generazione di attori. Unica nel farti la radiografia emotiva, Beatrice era dotata di una capacità di analisi della persona unica; capiva all’istante difetti, limiti, preoccupazioni».

Perché è stato l’incontro della sua vita?

«Perché il suo insegnamento ha stravolto il mio approccio alla recitazione che fino quel momento era “imparo le battute e faccio me stesso”. Non avevo capito niente: Beatrice mi ha insegnato che l’attore lavora per costruire il personaggio cercando di dargli caratteristiche differenti ogni volta. La memoria diventa l’ultimo dei problemi, il grande lavoro è prima. Grazie a lei mi sono conosciuto, sono migliorato anche come uomo e ho ottenuto l’accettazione di mio padre, fondamentale per me. Questo accadde quando lui si convinse che potevo fare questo lavoro con professionalità e fu merito di Beatrice che è riuscita perfino a farmi vivere con serenità la sua morte. Ci aveva riappacificato: l’uomo che più di tutti non regalava niente a nessuno mi aveva accettato. Anzi, si alzava in piedi e tifava per me».

Quando accadde?

«La storia è lunga. Ce li ha due minuti?»

Prego…

«Fino ai 21 anni non avevamo avuto un grande rapporto io e Ugo, lui non era bravo con gli adolescenti ed io ero stato adolescente molto a lungo, severo e categorico come solo i figli adolescenti sanno essere. A un certo punto succede che mio padre inizia a preoccuparsi per il mio futuro. Era il periodo in cui accettavo un po' di tutto per emergere e rendermi indipendente da lui a livello economico: ruoli in film che potevo evitare, conduzioni tv... Ugo si chiedeva se sognavo davvero di fare l’attore o se volessi semplicemente diventare famoso».

Lei se lo era mai domandato questo?

«Fino ad allora no, lo feci quando arrivò la proposta di presentare Sanremo».

Ora ci arriviamo…

«Un giorno Ugo fece una cosa che non aveva mai fatto e che ho scoperto molto tempo dopo la sua morte: chiamò l’amico di sempre Pupi Avati che stava preparando un film e gli chiese “perché non coinvolgi Gianmarco? Vorrei facesse qualcosa di più impegnativo. Una cosa piccola…”. E Pupi di nascosto mi chiamò per fare una parte. Era un sogno. Poco prima della partenza del film, mi spacco un ginocchio a una partitella di beneficienza, non lo dico a nessuno e me ne sto nel letto ingessato, fino a quando una mattina leggo sul giornale che condurrò il festival di Sanremo. Ero stupito, incredulo ma anche imbarazzato; chiamo il mio agente e gli domando “cos’è sta storia di Sanremo? Io ho il film di Pupi da fare”. Lui balbetta e mi risponde “andiamo in Rai”. Io non ne sapevo nulla, ma effettivamente c’era stata una fuga di notizie. Mi sego il gesso da solo e vado a viale Mazzini, dove effettivamente mi propongono la conduzione del Festival. A casa trovo i messaggi furiosi di Pupi: “se fai Sanremo il film te lo scordi” suonava in segreteria. Poi trovai anche messaggi di papà. Non potevo immaginare che Ugo tenesse particolarmente a quel film, essendosi speso con Pupi, e a ripensarci oggi che tenerezza! All’epoca litigammo, accettai Sanremo anche per ripicca. Io sono della bilancia, nutro un incredibile amore per la giustizia e loro non mi permettevano di spiegare; le cose si sarebbero potute incastrare, invece Pupi rispetta il patto e non mi fa entrare nel film; di conseguenza anche con papà si incrinano i rapporti. Due mesi dopo faccio il Festival, arrivano le opportunità, ci sono le ragazzine sotto casa e mi chiedo: è questo che voglio nella vita? Voglio essere un personaggio o un attore? Me lo sono chiesto io, a quel punto. Non ringrazierò mai abbastanza Sanremo per avermi messo alle strette. Mi rispondo di no e per fortuna incontro Beatrice Bracco: decido di fare un passo indietro, torno sul set di “Ultrà” come assistente volontario e mentre sono l’assistente di Ferzan Optezec, a quel tempo aiuto regia di mio fratello Ricki, Giulio Base, per restituirmi indietro il favore di avergli presentato Ricki, mi propone il provino per uno spettacolo nei teatri Off, una cosa un po' violenta ambientata nelle palestre di pugilato di periferia. Una cosa del tutto nuova. Alla prima, in un teatrino di 40 posti, viene a vederci Ugo; mi trova cambiato, pronto, serio. Mi guarda finalmente in una chiave diversa, riconosce l’attore sul palco, non più solo suo figlio e a fine spettacolo si alza in piedi urlando: “Bravi, bravi! Questo è il teatro che bisogna fare!”. Diventiamo un caso e mio padre mi concede definitivamente il lascia passare per questo mestiere. Da quel giorno facciamo pace e il nostro rapporto si trasforma in qualcosa di meraviglioso. Ecco la magia di Beatrice».

Le va di chiudere parlando d’amore?

«L’amore è mia moglie Valeria, dopo 30 anni sono ancora molto innamorato. Fino a lei sono stato un fregnone nei rapporti: davo tutto all’universo femminile ricevendo indietro solo batoste e quando mi sono detto “basta sofferenze, ora faccio il single come tutti e mi diverto”, è arrivata lei. Un incontro solo apparentemente casuale quando avevo deciso di starmene per conto mio. La vita è così».

Chi ha facilitato l’incontro?

«Il mio fratello acquisito Sergio Cammariere al quale ai tempi facevo da autista e manager credendo fortemente nel suo talento. Io e lui abbiamo convissuto, è un grande amico, l’ho portato io nella prima casa discografica quando nessuno credeva in lui: io sì e il suo successo è stato anche il mio. Così una sera, dopo un concerto a Sassari, le coincidenze astrali ci portarono in un localino fumoso; la puntai subito, unimmo i tavoli, feci un paio di gaffe e poi scattò il colpo di fulmine. Io e Valeria oggi stiamo insieme da 20 anni, viviamo a Velletri dove portiamo avanti la Tognazza, la nostra azienda vitivinicola e casa museo di Ugo, sinonimo di amicizia e convivialità. Tra vigne e uliveti viviamo sereni. Fuori dal cancello c’è l’Italia; dentro, il libero territorio della Tognazza».


 

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