Luca Banchi, il ct azzurro a tutto campo tra carriera e famiglia: «Col basket non è stato subito amore. Il padre a distanza la partita più difficile»
Dal primo allenamento a Grosseto in sella a un “Ciao” agli anni trascorsi Livorno, fino alla svolta come tecnico della Lettonia: «Fare il tecnico azzurro senza giocatori a disposizione è complesso: ecco il mio sogno e il mio progetto»
C’è il Banchi allenatore dell’Italbasket che sogna un posto al prossimo Mondiale e magari anche alle Olimpiadi: preparato, pignolo, all’apice di una carriera mai banale. Tanto libero da ribaltare l’individualismo imperante in una frase: «La nazionale - dice - è di tutti. Io lavoro per il futuro e sarei felice se i frutti di quello che stiamo costruendo li raccogliesse il mio successore». E poi c’è il Luca privato: il ragazzo di Gorarella, quartiere appena fuori dal centro di Grosseto, che nei primi anni Ottanta faceva il percorso casa-palestra in sella a un "Ciao" bianco condiviso con Silvia (diventata sua moglie) e una sacca di palloni a tracolla. Padre di Alessandro e Margherita, uno degli ultimi personaggi pubblici a non avere (e non volere) un profilo social. «Preferisco i rapporti faccia a faccia», ammette. Coach, siamo negli anni Settanta e Grosseto è una delle capitali italiane del baseball.
Perché il piccolo Banchi finisce a tirare a canestro invece di battere o lanciare?
«Sono stati i miei genitori a portarmi in palestra per la prima volta. I due fratelli più grandi giocavano, mamma e papà vedevano in quello sport un ambiente sano, educativo. Insomma, all’inizio è stata una scelta condizionata, più indotta che mia».
Quindi non un colpo di fulmine?
«Assolutamente. All’inizio ho fatto fatica ad appassionarmi. A Grosseto, per l’appunto, la pallacanestro non è mai stato lo sport più importante. La svolta è arrivata nel 1975 quando ci siamo trasferiti a Montecatini per quattro anni. Quella che poi sarebbe diventata la Panapesca di Mario Boni era in serie D, e la partita della domenica era un evento. È in quel club che è nato tutto, ricordo Gianfranco "Cacco" Benvenuti, ad esempio».
Ricorda anche il suo primo allenamento da coach?
«Benissimo. Tutto è successo per caso quando siamo tornati a Grosseto. Fu il mio prof del liceo, Luciano Righeschi con cui ancora oggi mi vedo e mi sento, a vedere in me caratteristiche che nemmeno pensavo di avere. Un giorno mi disse di presentarmi in palestra. Mi fece trovare un gruppo di giocatori nati nel 1971, avevano appena sei anni meno di me. In pratica li usò come cavie. Da lì Luciano è diventato il mio tutore. Mi ha insegnato i primi rudimenti del ruolo, parlavamo delle metodologie di allenamento. Ancora oggi ci confrontiamo. La cosa più difficile di quel periodo? Cambiare la visione: da giocatore ad allenatore».
Più visto nessuno di quei ragazzi?
«Quando vado a Grosseto spesso li incontro. A loro fa un po’ strano che quell’allenatore giovanissimo che andava col motorino in palestra oggi sia il coach della nazionale».
È vero che lei e Massimo Mariotti, allenatore della nazionale di hockey su pista siete cresciuti nella stessa via?
«Confermo, via De Nicola. Credo sia una specie di record mondiale. Ma oltre a noi due Grosseto ha anche avuto un altro ct azzurro, Marco Mazzieri nel baseball».
La prima svolta nell’estate 1989. Col senno di poi sembra un film di Virzì. Il giovane Banchi arriva a Livorno, chiamato al Don Bosco da Massimo Faraoni, mentre la Libertas perde lo scudetto contro Milano nella finale più discussa della Storia.
«Arrivo proprio quell’estate. Allenavo l’Affrico Firenze, Faraoni (oggi presidente Fip Toscana ndr) mi propone di andare a Livorno. Per un toscano allenare in una città così rappresentativa era un motivo di orgoglio. Di quegli anni porto ancora con me esperienze incredibili».
Tipo?
«La gente due anni fa ha spalancato gli occhi quando ha visto 8.000 spettatori per il derby di serie B tra Pielle e Libertas. Ma allora era anche peggio. Per i derby giovanili le società erano costrette a mettere il biglietto come al cinema perché le palestre non riuscivano a contenere il numero di richieste. C’erano allenatori di livello incredibile: Paolo Cianfrini e Pino Gergia, ad esempio. Quella era una vera e propria scuola: Kevin Restani, Roberto Raffaele, Vadacca, Bianchi e molti altri».
Il suo Don Bosco va oltre e diventa un laboratorio, una avanguardia sportiva: giovani talenti che arrivano da tutta Italia ma anche dall’estero come i fratelli Gigena. Come nasce quel modello?
«Grazie alla visione di Faraoni e all’avvento della famiglia D’Alesio. Così abbiamo cambiato il paradigma, la strategia: produrre giocatori per creare un flusso dove la prima squadra era il logico sbocco. All’epoca rappresentammo un modello difficilmente replicabile. Tanto che nel 1997 la prima squadra era composta da Roberto "Bob" Guerrini, due americani e sette giocatori provenienti dalle giovanili».
Arrivano la Serie A1 (in panchina quell’anno c’era Finelli) e anche tre scudetti Juniores, ma si raccontano anche leggende come gli allenamenti a Natale e il primo dell’anno, il sabotaggio dell’orologio della palestra per prolungare le sedute.
«Ma quali leggende? È tutto vero. Aggiungo che Pino, il custode della palestra dei Salesiani, ci tirava le secchiate d’acqua per farci andare via».
Dopo i successi a Siena, arriva a Milano e la sua carriera sembra destinata a crescere ancora: scudetto al primo anno, nessuno come lei né prima né dopo. Poi invece il banchismo si ferma. È cambiato qualcosa in lei o intorno a lei?
«Non lo so. Il secondo anno l’eliminazione ai playoff con Sassari mi è costato il posto. È stata la fine di un ciclo, dieci anni incredibili, vissuti sempre col piede sull’acceleratore. A quel punto cercavo contesti che mi stimolassero, dove potevo essere valorizzato e valorizzare. Ma per due anni non sono arrivate proposte che avessero certi connotati. Così mi sono fermato, ma non ho mai smesso di vivere il basket con la stessa passione: mi sono aggiornato».
Deve essere stato uno choc?
«Grazie ai capisaldi della mia vita, a cominciare dalla famiglia, mi sono riappropriato di cose che avevo un po’ abbandonato. E soprattutto ho viaggiato molto».
L’impressione è che tornando ad allenare, nel 2017 a Torino, fosse un Banchi, diverso, forse migliore. «Sono tornato perché il progetto di Torino mi piaceva, la squadra era figa da allenare, infatti poi ha vinto la Coppa Italia, ma le cose non sono andate come volevo. Nonostante uno sponsor importante e una città che stava riscoprendo il basket».
Nella sua seconda vita da allenatore, la sensazione è che non sia disposto a scendere a compromessi: l’esempio più evidente sono le dimissioni dalla Virtus Bologna...
«Guardi, quando faccio le riunioni con i giovani allenatori dico loro sempre un cosa: "Non fate come me"».
Perché?
«Perché nella mia carriera ho fatto scelte poco convenzionali, scelte che se emulate sono rischiosissime. Personalmente una certa autonomia me la sono guadagnata attraverso lavoro e sacrificio. Ma oggi alla figura allenatore non è riconosciuta la dignità della mia generazione. Quando allenavo le giovanili percepivo uno stipendio vero che mi permetteva di mantenere una famiglia, oggi fare l’allenatore è un passatempo, dove al massimo ti danno un rimborso di qualche centinaia di euro. Ecco perché tanti poi mollano, scelgono altre strade. Tornando alla sua domanda oggi la mia filosofia è semplice: quando percepisco che non c’è margine, se si tratta di fare un passo indietro lo faccio».
Se dovesse scegliere un momento decisivo della sua carriera?
«La stagione spartiacque è stata al Bamberg, al posto di Trincheri. È in quella situazione che mi sono attestato come allenatore internazionale. All’epoca eravamo in pochi. Adesso nella lista degli italiani all’estero ci sono venti nomi».
Il grande pubblico però la riscopre due anni fa ai Mondiali sulla panchina della Lettonia: quinto posto a un tiro dalla semifinale e il premio di miglior allenatore manifestazione.
«È stata una apoteosi professionale. Anche perché nulla è paragonabile a ciò che riesci a vivere rappresentando una nazione. Con la Lettonia siamo arrivati a un tiro dal podio, ma abbiamo esportato un modo di fare basket. In quella squadra c’erano giocatori allora senza contratto, come Zagars, oppure alla periferia delle scelte, come Grazulis. Quel risultato è stato il frutto di lavoro e identità. In patria siamo stati accolti a Riga da una folla mai vista. Io ero l’unico non lettone in quel delirio. Ho percepito emozioni uniche che ora sogno di vivere con la nazionale italiana».
Appunto, l’Italbasket. Prime due partite delle qualificazioni mondiali: una vittoria e una sconfitta. C’è chi dice che il basket per tornare ai vertici con la nazionale maggiore dovrebbe ispirarsi al volley o al tennis. È d’accordo?
«Si tratta di contesti troppo diversi. Prendiamo il volley. Il calendario dei campionati è pensato per non interferire con gli impegni delle nazionali. Da noi è il contrario. Noi ci giochiamo le qualificazioni ai mondiali in sei finestre, ma in quattro di queste non possiamo schierare i giocatori che militano nei tre campionati più importanti al mondo. Io sono stato nominato ad agosto e non ho visto un giocatore fino al lunedì prima dell’esordio con l’Islanda. Come fa un allenatore ad avere un impatto su 15 elementi che non ha mai allenato? Magari con un gap generazionale tra loro?».
In una situazione del genere un allenatore cosa può fare?
«Dare equilibrio e sostegno ai giocatori, curare gli aspetti organizzativi. Oggi - è evidente - non posso allenare la squadra, infatti aspetto in gloria l’estate. Ma questa situazione mi era chiara quando ho accettato l’incarico e dunque potevo rifiutare. Ecco perché cerco di fare del mio meglio, la nazionale per definizione appartiene alle generazioni successive».
Appunto. Oggi a un allenatore non viene chiesto solo di vincere ma anche di essere il riferimento di un movimento: incontri, stage, interviste come questa. Allenare nel senso più semplice del termine rischia di diventare secondario?
«Il lavoro in palestra resta centrale, altrimenti si violenta uno dei capisaldi di questo ruolo. Diciamo che nell’attesa di avere la squadra a disposizione giro il territorio per vedere più giocatori possibili, monitorio con il mio staff anche i 70 italiani che giocano all’estero, facciamo iniziative come "Ogni Regione conta"».
Abbiamo chiesto all’intelligenza artificiale il quintetto dell’Italbasket nel 2035: Sarr, Lonati, Niang, Perez, e Suigo. La realtà potrebbe anticipare l’AI?
«Mi ci sto dedicando a prescindere dell’intelligenza artificiale. Spero che non siano valutazioni legate alla credibilità. Dietro ci dovrò essere tanto lavoro. Certo, mi spiace che abbia dimenticato Francesco Ferari, ma non è il solo».
Non solo il gioco del basket sta cambiando, ma anche il linguaggio. Il recupero difensivo è diventato il close out, il taglio del lungo verso la palla, il pintch post, il blocco sul palleggiatore in transizione il drag che diventa double drag, il blocco in allontanamento il flare…
«Il linguaggio non è cambiato, si è solo ispirato a un vocabolario tecnico più preciso e immediato rispetto alla nostra lingua. Con i miei collaboratori stiamo cercando di omologare il linguaggio delle nazionali, ma stiamo trovando oggettive difficoltà a trovare termini in italiano che abbiano stessa incisività e la stessa forza dell’inglese. Loro sintetizzano un concetto in una sola parola ed è calzante, lo visualizzi subito. E nei time out questa immediatezza aiuta».
Fuori dal campo che padre è stato? Un padre allenatore o un padre giocatore?
«Ho cercato di garantire una presenza paterna a dispetto del fatto che fisicamente fossi assente. Perché dalla seconda esperienza a Livorno la famiglia è sempre rimasta a Grosseto. Essere autorevole con i figli a distanza è difficile. Infatti negli anni mia moglie spesso mi ha rimproverato: "Smetti di fare l’allenatore a casa". Trovare l’equilibrio non è stato facile, ma ci ho provato. Diciamo che ho rifiutato di essere un padre amico e non ho l’illusione che i miei figli abbiano la venerazione che io ho avuto per i miei genitori. Sarebbe assurdo pretenderla. Mi accontento di trasmettere una piccola percentuale dell’amore che ho verso mio padre e mia madre».
Sulla foto di WhatsApp c’è un barboncino che mangia un gelato e la scritta: "Cieli blu, amico mio..."«Quello nella foto è il nostro primo cane. Piccolo e bianco lo avevamo chiamato Shaquille O’Neal, detto "Shaq". Quando lo abbiamo preso i miei figli erano piccoli, volevo che capissero cosa fosse l’amore incondizionato, come quello che ti dà un animale. Quando se n’è andato, dopo 15 anni, è stato uno choc talmente forte che ci siamo presi una pausa dagli animali. Adesso abbiamo optato per un maltese. Si chiama Artù».
E quella frase.
«L’ho presa dai piloti dell’aeronautica. È il motto che viene recitato in segno di rispetto quando muoiono, simboleggiando il volo eterno e l’ascesa verso una dimensione superiore».
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