L’incidente mortale
Andrea Zorzi: «Il genio di Velasco, l’Elba d’estate e la sconfitta che fa ancora male». E quella volta che Berlusconi...
L’ex stella della Nazionale dei fenomeni ha festeggiato 60 anni: «L’altezza all’inizio era un problema. A teatro ho trovato la mia seconda vita»
È stato tra i giocatori simbolo della pallavolo italiana, colonna portante della Nazionale (325 partite) ed esponente di spicco della “generazione di fenomeni” che negli anni Novanta ha dominato vincendo tutto, a eccezione dell’oro olimpico, solo sfiorato nel 1996 ad Atlanta, e contribuendo alla rinascita del volley che aveva perso appeal dopo la medaglia d’argento ai Mondiali del 1978 e il bronzo alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Sembra ieri quando le micidiali schiacciate dell’opposto (il ruolo che ricopriva) Andrea Zorzi, terzo battitore della storia del campionato italiano con 476 “ace” dietro a Cantagalli e Sartoretti e al primo posto per media punti/partita (28), si abbattevano sulle difese avversarie. Invece sono già passati quasi 30 anni da quando “Zorro” – soprannome affibbiato dai tecnici per non confonderlo con gli altri tre azzurri che portavano lo stesso nome di battesimo (Gardini, Sartoretti e Giani) – imponeva la sua legge nei palazzetti.
Sessanta le candeline spente ieri da questo gigante buono di oltre 2 metri che ha trascorso il compleanno, com’è sua consuetudine, all’Isola d’Elba in compagnia della moglie Giulia Staccioli, campionessa di ginnastica ritmica (galeotte furono le Olimpiadi del 1988 a Seul) e il figlio Numa di 26 anni: «Con due olimpionici in famiglia lui ha pensato bene di virare verso lo studio: si è laureato in fisica, sta facendo il dottorato a Parigi» sorride il campione, oggi apprezzato attore di teatro d’avanguardia. Zorzi è stato il pallone d’oro della pallavolo: miglior giocatore del 1991. E per due volte ha conquistato il titolo di Mvp alla World League (1990 e 1991).
Una bacheca vivente con due campionati mondiali (1990 e 1994), tre Europei (1989, 1993, 1995), tre World League (1991, 1992, 1993) e una Coppa del Mondo (1995) in maglia azzurra. A cui vanno aggiunti i trionfi nelle squadre di club: Coppa dei Campioni (Treviso, 1994-95), quattro Coppa delle Coppe (Parma 1988-89-90 e Milano 93), tre Supercoppe europee (Parma 1989 e 90, Treviso 94), tre Mondiali per club (Parma 89, Milano 90, 92), due scudetti (Parma 90 e Treviso 96) e due Coppe Italia (Parma 87 e 90).
Sino all’età 16 anni lo sport e il volley non erano nei suoi pensieri.
«Ho vissuto la mia infanzia a Torreselle, un paesino di meno di 1.000 abitanti in provincia di Padova, con mio babbo Albino, emigrato in Australia e rientrato negli anni Sessanta per lavorare come autista e ruspista, e mia mamma Diana dipendente del manicomio sull’isola di San Servolo, a Venezia. Ero ossessionato dalla mia altezza sproporzionata. Con gli amici di tanto in tanto giocavo a pallone sul sagrato della chiesa. Non faceva per me: ero uno spilungone magrissimo e impacciato con mani enormi e mi sentivo strano. Anche in discoteca non sapevo come muovermi e con le ragazze ero un disastro. A salvarmi fu il mio professore di educazione fisica al liceo classico di Castelfranco Veneto. Mi disse che, vista la mia altezza, dovevo pensare seriamente a fare sport: basket o volley. Scelsi la pallavolo per pigrizia: il campo con la rete era più vicino a casa mia».
Campioni non si nasce, ma si diventa?
«Nel mio caso è andata così. La prima squadra è stata la Silvolley di Silvelle, frazione di Trebaseleghe (Padova). Ero molto scarso, mi mancavano i fondamentali. Devo ringraziare gli allenatori polacchi – Ryszard Bosek che ho avuto alla Thermomec Padova in A2 e Aleksander Skiba che è stato il primo tecnico a Parma – che mi facevano faticare in palestra. Se non hai passione non reggi: nei ritiri piangevo dalla stanchezza, ma pian piano la tecnica è migliorata e ho iniziato a vincere».
La svolta della maturità sono stati i trasferimenti a Parma e a Milano?
«Per me è stato fondamentale il passaggio alla Maxicono del presidente Carlo Magri e del tecnico Gian Paolo Montali. A Parma mi hanno offerto un milione e mezzo al mese. Mio babbo li guadagnava per guidare i bus. Con i primi soldi acquistai un camper che divenne la nostra casa viaggiante. Nel 1991 arrivò Berlusconi a propormi il trasferimento alla Mediolanum: mi offrì dieci volte in più di quanto prendevo in un mese in Emilia. Da allora Milano è diventata la mia città: ci viveva Giulia, la donna della vita».
Zorzi e la Toscana.
«È un luogo del cuore. Mia moglie è originaria di Volterra. È la figlia dell’artista di fama mondiale Mauro Staccioli (scomparso nel 2018, ndr) che nel 1963 si trasferì in Lombardia (prima a Lodi e poi a Milano) dove assunse l’incarico di direttore del liceo artistico di Brera e alla fine degli anni Sessanta si dedicò alla scultura con una serie di interventi nella sua città, la realizzazione alla Biennale di Venezia del celebre “Muro” e successivamente l’“Equilibrio Sospeso” al Rond Point de l’Europe a Bruxelles nel 1998. Abbiamo una casa a Roccastrada (Grosseto) e le vacanze estive le passiamo all’Elba. Adoro il carattere combattivo, schietto e diretto dei toscani che amano le antiche tradizioni, l’ironia e lo sberleffo».
La vittoria che non dimentica e la delusione più cocente.
«Ho partecipato a tre Olimpiadi e vinto campionati mondiali, ma i ricordi più belli sono legati ai primi successi internazionali in azzurro: il trionfo in Svezia all’Europeo del 1989 e al Mondiale di Rio de Janeiro. Per otto anni sono stato vice capitano della Nazionale e il rammarico più grande resta il mancato oro alle Olimpiadi di Barcellona 1992 e in quelle di Atlanta 1996 entrambe a vantaggio dell’Olanda. Se in questo ultimo caso l’argento è stato sportivamente accettabile nonostante l’amarezza per il primo posto perso all’ultima palla, la sconfitta ai quarti del 1992 è stato un peccato di presunzione».
Il rapporto con Lucchetta e Velasco.
«Andrea è stato il capitano di quella squadra da “hall of fame”. Lui esuberante, divertente e scanzonato mentre io apparentemente più riflessivo, impegnato e responsabile. Per i media eravamo i simboli di quella pallavolo. Ci trattavano come star e nel 1991, all’apice del successo, Pippo Baudo ci invitò al Festival di Sanremo. La personalità e l’intelligenza di Julio Velasco è stato il motore dei nostri successi. Sapeva sfruttare al meglio la tensione che affiorava durante gli allenamenti e diventava competitività e desiderio di alzare sempre l’asticella e spingerci oltre i nostri limiti. Gli invidio la grande capacità di rinnovarsi. Molti di quella squadra vincente allenano: io non lo farei. A 33 anni mi sono ritirato e oggi fatico a passare più di un quarto d’ora in palestra».
Come nasce l’amore per il teatro?
«Dall’incontro con mia moglie, campionessa di ginnastica ritmica e coreografa, fondatrice di Kataklò, una compagnia italiana di danza acrobatica. Mi ero ritirato dalla pallavolo nel 1998 e subito dopo ho iniziato a lavorare come produttore e designer in quella che era la prima compagnia di danza fisica in Italia. Nel 2012 ho preso parte alla prime rappresentazione teatrale: “La leggenda del pallavolista volante” ispirata alla mia storia e alla mia carriera di pallavolo. Un successo andato al di là dell’immaginabile con oltre 200 repliche in tutta Italia. In questi giorni è iniziato un nuovo spettacolo dal titolo “La magnifica imperfezione. Giro del mondo su una palla in volo”. Si tratta di un funambolico viaggio nel mondo della pallavolo attraverso cinque continenti e lungo tutto il Novecento».
C’è oggi un nuovo Zorro?
«La pallavolo è radicalmente cambiata. Non vedo all’orizzonte un giocatore con le mie caratteristiche. Una volta la potenza era la chiave del volley e uno schiacciatore come me poteva fare la differenza. Oggi non basta più la fisicità dell’opposto. Il gioco si è evoluto. Servono maggiore approccio tattico e velocità di esecuzione».