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In morte di Drazen Dalipagic, il ritratto di un immarcabile. Andrea Forti: «Campione pazzesco»

di Andrea Rocchi e Lorenzo Carducci

	Drazen Dalipagic
Drazen Dalipagic

Addio a “Praja”, mito del basket, segnò 70 punti in una partita. Tanti i toscani che lo affrontarono. Forti: «Era immarcabile»

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Piange il cielo di Mostar. Piange una pioggia di lacrime per il suo eroe baffuto che solo la malattia ha sconfitto a 73 anni. Il simbolo e l’icona della pallacanestro jugoslava e uno dei più grandi cestisti di sempre. Piange quel cielo slavo che il 9 novembre del 1993, mentre si sgretolava la Cortina di Ferro e cadevano i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, assistette impotente al crudele bombardamento dello Stari Most, gioiello dell’architettura ottomana, il ponte che univa due parti della città abitate da etnie diverse e da sempre simbolo di integrazione e convivenza. Quindici anni prima, Mostar e l’intera Jugoslavia, erano incollate alla tv in bianco e nero a vedere un’altra pioggia di bombe. Quelle scaricate sulla retina con una precisione chirurgica dal suo figlio più bello, Drazen Dalipagic, l’implacabile cecchino del Partizan Belgrado e della Nazionale della “generazione di fenomeni”. I suoi canestri valsero alla Jugoslavia l’oro ai campionati del mondo del 1978 e, appena due anni dopo, quello alle olimpiadi di Mosca. Ma erano bombe buone quelle sparate dalle mani di “Praja” che regalavano solo emozioni e spettacolo. Niente a che vedere con l’orrore e la brutalità della guerra.

L’ultima partita Drazen Dalipagic l’ha giocata da solo, a Belgrado, circondato dall’affetto dei suoi cari e lontano dai riflettori della ribalta. Sapeva, in cuor suo, che contro quest’avversario stavolta ci sarebbe stato ben poco da fare. E oggi il mondo del canestro piange un gigante del basket: Praja, nomignolo che aveva ereditato da un energico stopper del Velez Mostar, squadra che tifava da bambino quando più che i canestri gli interessavano i campini di calcio. La sua carriera con la palla a spicchi è legata alle imprese compiute negli anni ’70’ e ’80 con la maglia del Partizan con cui vinse due volte la Coppa Korac e dove in una stagione viaggia a una media allucinante di 42,9 punti e, ovviamente, con la casacca della Nazionale. Sarà il miglior marcatore della storia con 3700 punti segnati ma anche miglior giocatore del mondiale vinto nel 1978, argento iridato nel 1974 e olimpico nel 1976, nonché vincitore di tre Europei consecutivi tra il 1973 e il 1977. Guardia ala di 197 centimetri, un fisico asciutto e normalissimo senza tatuaggi sulla pelle, con due baffi da metalmeccanico e una mano baciata da Dio, Dalipagic era cresciuto nella scuola slava della pallacanestro. Aveva un senso tattico incredibile, un’abilità senza rivali nello smarcarsi e un tiro preciso come una carabina delle forze speciali negli anni, ricordiamolo, in cui ancora non esistevano i canestri da tre punti.

La sua storia si lega fortemente anche al nostro Paese dove giocherà per sette stagioni: arriva nell’estate del 1981 ingaggiato dalla gloriosa Reyer Venezia. Sono gli anni in cui il club lagunare prova a rompere l’ortodossia di un campionato che vuole Milano-Bologna-Cantù triangolo vincente e inarrivabile. Un anno a 32 punti di media, poi Drazen è richiamato dalle sirene di casa e torna a Belgrado dove disputa una stagione da sogno. La serie A italiana, però, resta allettante anche perché sono gli anni in cui nel basket cominciano a circolare parecchi soldi e Dalipagic, dopo un passaggio al Real Madrid, arriva a Udine, si ripete a suon di punti (31 di media) poi torna a Venezia (dove è rimasto nei cuori), per tre stagioni con medie realizzativa da stropicciarsi gli occhi. Il 25 gennaio del 1987, durante Venezia-Virtus Bologna coi veneti che devono vincere per salvarsi e i felsinei che sono una corazzata, va in scena qualcosa di straordinario: Venezia vince 107 a 102 ma Dalipacig mette a score la bellezza di 70 punti con un incredibile 18 su 23 da due, 5 su 9 da tre e 19 su 19 nei liberi.

Negli anni 80 della “Livorno da bere” e dei mitici derby al PalaAllende i destini dei giocatori di Pielle e Libertas s’incrociano con quelli della Reyer del mostro sacro Dalipagic. Con esiti alterni sulle due sponde, ma con un unico denominatore comune: quell’uomo è immarcabile.

Ricorda oggi uno dei protagonisti di quegli anni, il libertassino Andrea Forti: «Considero Praja un giocatore eterno, sarebbe stato dominante anche in questa epoca e questa epoca e secondo me oggi sarebbe andato in Nba. Era atletico, aveva grande fisicità ed era un tiratore pazzesco. Ricordo che quando ero alla Libertas, con coach Alberto Bucci preparavamo su di lui qualche difesa tattica come la box and one, ma dopo un po’ ci rinunciammo e ci dicemmo: pensiamo a difendere sugli altri perché lui tanto ne fa 40 comunque. L’ho marcato diverse volte, anche se ho cercato di rimuovere quei ricordi perché segnava sempre (ride, ndr). Provavamo a togliergli la destra, a raddoppiarlo, ma niente. Anche come persona aveva uno spessore incredibile: integerrimo, rispettoso dei compagni anche se aveva una personalità incredibile. In partita era un giocatore duro, ma non sporco. Nonostante fosse baciato dal talento, da buon slavo era un lavoratore instancabile e faceva quello che faceva grazie al lavoro. Quando io ero a Mestre nel 1980-81 lui giocava a Venezia, salimmo entrambe dall’A2 all’A1. Alla Reyer c’erano lui e Spencer Haywood, noi avevamo Chuck Jura e John Brown, erano derby bellissimi. Tra Praja e Jura c’era grande agonismo».

In Italia giocherà un’ultima stagione a Verona, poi chiuderà una carriera strepitosa nella Stella Rossa. Da ieri è entrato nell’Olimpo del basket dove - state sicuri - cercherà la mattonella giusta da cui “sparare” le sue micidiali triple.l

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