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Addio a Giggiriva, l'ultimo rappresentante del calcio che dice no ai miliardi

di Giorgio Billeri
Addio a Giggiriva, l'ultimo rappresentante del calcio che dice no ai miliardi

Muore a 79 anni il calciatore diventato re di un’isola: mai più uno come lui

22 gennaio 2024
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Non se ne farà un altro. Mai più. Nessuno sarà mai come Luigi Riva da Leggiuno. Nessuno più potrà incarnare in un solo atleta tecnica, atletismo, strapotere fisico, coraggio. Nessuno potrà armare quel sinistro come una scimitarra tagliente. Nessuno avrà mai il coraggio di immaginare il gol come lui faceva, di sentirlo sottopelle. Nessuno, per decenni a venire, batterà quel record che è esposto al Louvre del pallone.

Quei 35 gol in 42 partite con la maglia azzurra. Nessuno potrà mai essere Luigi Riva, Giggirriva, tutto attaccato, per i sardi, la sua vera gente. Nessuno più potrà essere, più che un uomo, una terra, un’isola, un modo di intendere la vita. Lui è stato tutto questo, e nessuno potrà mai avvicinarsi.

Riva è stato uno dei migliori cinque attaccanti della storia del calcio, oltre il tempo, lo spazio, le mutazioni genetiche del pallone. Al Nirvana dei bomber adesso ha bussato anche lui, ad aprire la porta ci ha pensato magari Gerd Muller, così simile e opposto, l’antipatico tedesco dal baricentro basso che con lui divise la leggenda quel pomeriggio all’Azteca, la partita del secolo.

Gigi, calciatore che ha cambiato la storia azzurra, che dopo i fasti mussoliniani di Vittorio Pozzo aveva raccolto soltanto malinconie, ma che ha cambiato soprattutto la geopolitica del calcio italiano utilizzando solo un piede, il sinistro: Gigirriva ha portato un’isola dal nulla al tutto, ha condotto per mano la Sardegna in Europa e nel mondo, ha imbracciato il vessillo dei Quattro Mori e lo ha sventolato, con la sua baldanza da guerriero acheo, il profilo scultoreo e il fisico forgiato nella roccia, in faccia agli Agnelli, al potere economico milanese, a tutto quello che sembrava inscalfibile.

Non se ne farà un altro. Nessuno potrà avere una storia come la sua, un romanzo malinconico come il suo lago varesino natio, ombroso, riservato e generoso come la Sardegna che gli ha rubato il cuore, felice e amara allo stesso tempo.

Un uomo, Gigi, nato per fare gol e per orientare i destini di chi a lui è stato vicino. Un uomo che si è alimentato della fama ma ancora di più della solitudine, in quell’esilio volontario, dolce e struggente davanti alla spiaggia del Poetto, solo a divorare sigarette, a ricordare e immaginare avvolto da quella perenne, mefitica nuvola. Con tanti a bussare alla sua porta, magari solo per avere una parola, un incoraggiamento, una carezza dal mito: e lui a ritrarsi, perché un guerriero Acheo sta nella sua tenda, solo fino alla fine.

È morto Gigi Riva: fa male soltanto a scriverlo. Perché era confortante sapere che quel signore ormai quasi ottantenne era comunque sempre lì, nel suo appartamento cagliaritano, seduto al tavolo del ristorante dove ogni giorno mangiava, piovesse o ci fosse il sole. Il solo fatto che Rombo di Tuono (Brera aveva capito per primo il brontolio di tempesta che usciva dalla palla quando la calciava lui) fosse al mondo confortava chi di quel vecchio e fascinoso calcio continuava a cibarsi, magari per dimenticare le partite spostate in Arabia Saudita soltanto per il Diavolo denaro, i cori razzisti, gli spettacoli inguardabili, i neologismi per pochi eletti che avrebbero fatto rabbrividire Nando Martellini, che le gesta di Rombo cantò per lunghi anni.

Per curare la nostalgia bastava scegliere un vecchio video e rivederlo, con quella maglia bianca stretta, pennellata su pettorali e bicipiti che erano stati il riscatto di una razza italiana sempre atleticamente succube di inglesi e tedeschi. Rivederlo era terapeutico, in un’epoca dove si fanno fatica anche a convocare in Nazionale gli attaccanti. Gigi era basico, semplice, essenziale: sceglieva sempre la strada più diretta, dettava il lancio lungo, prendeva posizione, con la forza delle gambe e il lavoro di bacino teneva distante il cerbero di turno prima di caricare il sinistro, con un movimento del braccio ampio, studiato, sempre uguale eppure immarcabile.

Poi quello schiocco: la palla calciata da Riva, declamò Brera, produceva un rumore diverso, pieno, rotondo, quasi minaccioso: un rombo, appunto. E la palla partiva dritta per dritta: quasi mai Gigi ha fatto gol ad effetto, ma la forza impressa era tale che il portiere non aveva il tempo nemmeno di abbozzare l’intervento. Doveva solo inchinarsi a quel Rombo.

Non se ne farà un altro. Perché Gigirriva ha dato alla causa tutto se stesso: alla sua Sardegna, alla gente che lo aveva adottato, curato e allevato. Un uomo su tutti ne capì la forza morale, la naturale capacità di essere leader senza eccessi, senza strepiti, soltanto con i lunghi silenzi e l’esempio in campo. Quell’uomo si chiamava Manlio Scopigno, era precocemente invecchiato, le borse sotto gli occhi da viveur, minato dalle sigarette e dallo stress, ma intuiva calcio come pochi. Capì che quel ragazzone varesino con l’anima sarda avrebbe trascinato al miracolo la periferia del pallone. Attorno a lui, assieme al presidente Andrea Arrica, edificò quel Cagliari mattone per mattone: Albertosi in porta, Niccolai e Tommasini, Greatti e Cera, Nenè e Gori, Domenghini a nitrire libero sulla fascia.

E in cima lui, Gigi, cui la palla arrivava quasi naturalmente, come fosse su un piano inclinato.

Gol, gol, gol: dovunque, comunque. In casa della Juve, delle milanesi, la Paperopoli del pallone, dove c’erano la Fiat e i cumenda: ma hai voglia di soldi, loro Riva non lo avevano. Provarono in tutti i modi a corromperne l’anima da guerriero acheo, ma lui aveva tutto: Cagliari, il Poetto, gli amici, il ristorante. E lo scudetto, anno di grazia 1970, qualcosa che i sardi non solo ricordano ancora, ma attorno al quale hanno edificato un tempio pagano.

Non se ne farà un altro. Perché Riva è stato anche l’azzurro della Nazionale: dove ha vinto l’Europeo 1968 (con un gol di sinistro, ça va sans dire), e sfiorato l’assoluto in Messico, due anni dopo, una storia tipicamente italiana. La partenza zoppicante, lui che non segna, turbato anche da storie personali. Poi i due gol con il Messico ed eccola, quella semifinale incredibile con la Germania, dove Gigi segna un gol di irreale difficoltà: addomestica d’esterno un traversone che arriva dalla parte opposta, con un controllo orientato si sposta la palla sul sinistro e non è un diagonale, no, è una carezza che gela Maier e si arrampica in rete dalla parte opposta. Riva, quel pomeriggio, bussò alla porta della leggenda.

Alla nazionale ha dato ginocchia, cuore, caviglie, sangue. Ne è stato accompagnatore e capodelegazione, tra sigarette, silenzi e consigli. Poi è tornato là, dove tutto iniziò e dove, ieri, tutto si è compiuto. Quella terra amatissima che gli intitolerà lo stadio, privilegio delle teste coronate, di Maradona, di Crujiff, di Puskas.

Gigirriva ha chiuso gli occhi davanti al mare del suo Poetto, e ci lascia in un mare di nostalgia, di tristezza, di lacrime. Il Rombo di Tuono si sente appena, come un temporale che si allontana. No, non se ne farà un altro.

 

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