Il Tirreno

Prato

Economia: l’intervista

Prato, il segretario della Cgil: «Il distretto tessile? Ecco come deve essere ripensato»

di Alessandro Formichella
La lavorazione di un’azienda
La lavorazione di un’azienda

Pancini chiede di istituire un comitato per cercare le soluzioni per contrastare la crisi

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PRATO. «Ripensare Prato» e fare quanto prima un «Comitato permanente sul distretto industriale» che coinvolga tutte le parti istituzionali e sociali, comprese quelle finanziarie, commerciali e le banche. Lorenzo Pancini, segretario della Camera del lavoro Cgil di Prato, in tasca non ha la medicina per risolvere l'ennesima crisi del distretto. Ma mette sul tavolo proposte su cui costruire un futuro più resistente.

Pancini, questa è la crisi più dura degli ultimi anni del distretto tessile?

«Dal 2008 si sono succedute almeno quattro grandi crisi della produzione tessile. Ultima quella del Covid. Poi la situazione sembrava riequilibrarsi. Negli ultimi dieci anni Prato ha perso il 20 % delle aziende manifatturiere, l'impennata delle ore autorizzate di cassa integrazione nel solo 2024 evidenzia che il "malato" sta male, molto».

Cosa c’è da fare nell'immediato?

«Innanzitutto salvare il "malato", che non muoia. Significa salvare il distretto industriale per prima cosa, ma poi lavorare subito a ripensare il modello industriale e di lavoro di Prato. Come ho già espresso "piccolo è bello", ma contro le sfide globali ora serve davvero a molto poco. E' necessario che le aziende si mettano assieme, si organizzino in modelli di produzione più grandi che possano competere con il resto d'Europa, la parte dove noi esportiamo di più, ma non solo».

Può bastare?

«Proviamo. La dove, si veda il processo di riorganizzazione della azienda “Beste”, le crisi vengono affrontate sì con problemi, ma con una capacità completamente diversa di stare sul mercato. Una capacità diversa di resistenza. E' un modello da prendere seriamente e quanto prima come riferimento».

Segretario, sembra di vedere una Cgil come un sindacato di tipo tedesco nelle sue parole.

«Oggi la Germania sta soffrendo sul piano economico e politico e questo si riflette pesantemente su di noi. Rappresenta insieme alla Francia uno dei principali mercati del distretto di Prato. Ma è certo che il modello tedesco, il coinvolgimento dei lavoratori nella codeterminazione dei processi industriali e di mercato, è un esempio concreto di come forze datoriali e lavoratori possono affrontare insieme le grandi crisi».

Secondo lei, Prato è ancora indietro in questo processo culturale di aggregazione?

«Siamo a un’era geologica indietro ancora. Si pensa che individualmente si risolva ogni cosa. E’ assolutamente il contrario, ci dobbiamo emancipare, crescere su questo piano. E’ una battaglia culturale, come dice giustamente qualcuno e penso anche io, per fare si che il distretto industriale non muoia. Tra l’altro a discapito di un sistema terziario e dei servizi che propone solo lavoro “povero”».

Lei ha richiamato tutta la città a mobilitarsi contro la crisi.

«Deve essere così a mio giudizio. Tutta Prato deve sentire il problema sulle spalle. Dal 2008 ogni volta Prato è uscita dalle varie crisi industriali, ma abbassando sempre di più il livello del reddito e delle persone occupate. In 10 anni sono oltre 500 le aziende che hanno chiuso i battenti. Le crisi non possono ricadere sempre e comunque sui lavoratori o su piccoli imprenditori che si ritrovano in affanno. Dobbiamo ripensare tutti assieme il modello di lavoro».

I cambiamenti sono repentini oggi. Arriva dalla Cgil una proposta da metter subito in campo?

«Andare oltre il tavolo sulla crisi del distretto tessile. Facciamo un comitato permanente con tutte le parti coinvolte dentro, comprese quelle del sistema finanziario e bancario. Tutti con la propria competenza e conoscenza per affrontare assieme nuovi modelli di produzione, di lavoro e di occupazione. La ricchezza per essere redistribuita con il lavoro deve crescere o saremo costretti alla desertificazione».

Non sarebbero necessari anche innovazione e tecnologia?

«Lo sono, ma servono investimenti e capacità economico-finanziarie per farle. Il Green deal e la transizione ecologica possono essere grandi traini di nuovo lavoro e di nuovi modelli industriali. La transizione ecologica o la facciamo, o saranno altri ad imporla. E a comandarci. Chi pensa di fermarla è fuori strada». 

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