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Camici e tute anti-Covid prodotte da lavoratori sfruttati: 10 arresti e 34 indagati. Sequestro di 43 milioni di euro

di Paolo Nencioni
Camici e tute anti-Covid prodotte da lavoratori sfruttati: 10 arresti e 34 indagati. Sequestro di 43 milioni di euro

Un consorzio romano aveva vinto un appalto da quasi 100 milioni e aveva affidato la produzione alle aziende cinesi di Prato

06 luglio 2022
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PRATO. Lucravano sulla vendita allo Stato di camici e tute anti-Covid sfruttando il lavoro di operai in stato di necessità. E’ questo il nocciolo dell’inchiesta dei sostituti Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli, condotta dalla squadra mobile della Questura di Prato, che ha portato in carcere quattro persone (due italiani e due cinesi). Altri sei indagati sono stati messi agli arresti domiciliari, a due è stato imposto il divieto di esercitare uffici direttivi, a quattro l’obbligo e il divieto di dimora. Le 16 persone raggiunte dalle misure cautelari a Roma, Prato e in altre province sono accusate a vario titolo di violazione del divieto di subappalto in contratti con la pubblica amministrazione, frode nelle forniture pubbliche, truffa aggravata ai danni dello Stato, sfruttamento del lavoro e impiego di manodopera clandestina, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato.

L’inchiesta ha avuto per oggetto tre distinti appalti per la fornitura di camici e tute anti-Covid alla Regione Lazio e al Commissario per l’emergenza Covid (all’epoca Domenico Arcuri), per un totale di 95 milioni e 800mila euro. Sono in corso sequestri per un valore di 43 milioni di euro, una ventina dei quali sono stati già trovati.

Al centro delle indagini c’è il consorzio romano Gap, che secondo quanto spiegato dal procuratore Nicolosi e dal dirigente della squadra mobile Alessandro Gallo, avrebbe vinto gli appalti senza aver una reale capacità di realizzare camici e tute (due milioni di camici protettivi monouso a un prezzo unitario di 6,10 euro, cinque milioni e 500mila tute monouso sterilizzate a 8,10 euro, cinque milioni e 500mila non sterilizzate a 7,10 euro) affidando poi la produzione ad alcune aziende cinesi, in gran parte a Prato, che sfruttano il lavoro di senegalesi, pachistani e bengalesi. Uno schema già visto, che continua a funzionare.

Dei 16 raggiunti dalle misure cautelari, 9 sono italiani e 7 cinesi. In totagli gli indagati sono 34.

Gli inquirenti hanno spiegato che non sono state fatte contestazioni sulla qualità di camici e tute. Le contestazioni riguardano la presunta produzione di una parte dei dispositivi in Albania e lo sfruttamento del lavoro, grazie al quale il consorzio romano avrebbe vinto l’appalto a quei prezzi.

A un certo punto la struttura commissariale ha contestato la provenienza dei dispositivi da fabbriche albanesi e gli imprenditori si sarebbero limitati a sostituire le maniche e le etichette delle tute per poi riconsegnare la merce.

L’inchiesta è partita da una denuncia presentata da un operaio senegalese dipendente di un’azienda cinese che a dicembre 2020 si lamentava per le condizioni di sfruttamento in cui era costretto a lavorare.

I nomi più “pesanti” tra i 34 indagati nell’inchiesta su camici e tute anti-Covid sono quelli dei fratelli Samuele e Massimiliano Piccolo, che sono finiti in carcere. Samuele è stato vicepresidente del consiglio comunale di Roma in quota Pdl fino al luglio 2012, quando fu arrestato con le accuse di associazione a delinquere e finanziamento illecito ai partiti, poi cadute. In carcere sono finiti anche due imprenditori cinesi, una donna, Chen An, e un uomo, Qiu Shiding. Gli arresti domiciliari invece sono stati disposti per Maurizio Berni di Carmignano, Gianluca Forieri di Roma, Hu Jinrong, Qiu Suizhen, Tang Xinlan, Zhang Yuguang.

Agli altri sei indagati raggiunti da misure cautelari è stato imposto il divieto o l’obbligo di dimora o l’interdizione alla direzione di un’impresa. Tra questi c’è anche una signora di Ladispoli, Cristiana Ferraccioli, che di professione fa la casalinga e di cui si era già occupata la trasmissione Report nel maggio 2021.

Lo scandalo delle tute anti-Covid infatti era già esploso e già si parlava del Consorzio Gap, che aveva vinto un appalto da 83,6 milioni di euro per la consegna di 11 milioni di tute, che poi furono consegnate in ritardo.

Quelli di Report andarono a parlare con il coordinatore delle attività operative del consorzio, che sembrava non aver ben presente Cristiana Ferraccioli, che pure all’epoca doveva essere il suo capo. In realtà, secondo la squadra mobile, la casalinga di Ladispoli era stata messa lì a fare la testa di legno.

Gli inquirenti sono convinti che gli amministratori di fatto del consorzio Gap siano i fratelli Samuele e Massmiliano Piccolo. Per questo ne hanno chiesto e ottenuto dal gip un’ordinanza di custodia cautelare in carcere.

Formalmente, Cristiana Ferraccioli risulta essere ancora l’amministratore unico del consorzio, mentre il direttore generale è Graziano Malerbi, che è stato interdetto dall’esercizio degli uffici direttivi, Gianluca Forieri è il responsabile dell’area legale, ora agli arresti domiciliari, Pierpaolo Montalto è il responsabile dell’area finanziaria, ora all’obbligo di firma, e Fabio Calardo risulta direttore della produzione, anche lui interdetto. Ora la Procura li accusa di aver concesso in subappalto e a cottimo la produzione delle tute anti-Covid appoggiandosi alle aziende Effebi Wear srl, Colass srls, Prandina Co. Srls, Tecnowear srl e Futura 2014.

Secondo la Procura, queste aziende hanno prodotto le tute senza nemmeno essere associate al consorzio Gap e solo quando il commissario straordinario per l’emergenza Covid fece notare l’incongruenza furono inserite nel consorzio, però sempre secondo gli inquirenti retrodatando la data di immissione. Dietro a queste cinque aziende ci sarebbero numerose confezioni cinesi che hanno ricevuto altri subappalti. 

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