Dall’inferno del Gambia a una nuova vita in Toscana, Touray simbolo di integrazione
Dal viaggio a piedi nel deserto alla prigionia in Libia al quasi affondamento nel Mediterraneo: nel 2016 è fuggito dall’Africa e rischiato la vita. Ora è vicepresidente del Movimento Shalom e lavora in un bar: «Quando ho visto la tragedia di Cutro ho pensato che poteva essere successo a me»
SAN MINIATO. «In mezzo al mare e sotto la pioggia, il gommone stava per affondare: in quel momento ognuno invocava il proprio Dio, alla ricerca di clemenza. Un inferno, al quale per fortuna sono sopravvissuto». Sarjo Touray originario di Sukuta in Gambia, oggi è vicepresidente del Movimento Shalom e responsabile dei migranti, oltre a lavorare come barista al Caffè Bonaparte nell’omonima piazza di San Miniato.
È simbolo di un processo di integrazione riuscito, che però dietro si porta tante sofferenze, paure e soprusi. Dal viaggio a piedi nel deserto alla prigionia in Libia al quasi affondamento nel Mediterraneo: ce ne sono per due vite, prendendo in prestito il titolo dell’ultimo grande successo di Marco Mengoni a Sanremo.
A febbraio 2016 la decisione di lasciare il Gambia, ma non per l’Italia: alcuni conoscenti avevano trovato successo lavorativo in Libia e l’idea era quella di ripercorrere il loro percorso. Dal Gambia al Senegal, poi Mali, Burkina, Niger e infine Libia: un po’ a piedi e un po’ con in macchina, pagando o trovando dei passaggi di fortuna. Il peggio, ovviamente, si presenta in Libia: «Abbiamo affrontato una parte del deserto in auto e qui il mezzo è rimasto bloccato nella sabbia: l’autista ci ha intimato di scendere e a me di piegarmi sotto la macchina per togliere la sabbia mentre lui provava a ripartire; mi sembrava una follia ma lui mi ha puntato la pistola e mi ha obbligato, è stato il momento in cui ho avuto complessivamente più paura».
Anche più di quando - sempre in un villaggio nel deserto - Touray e i suoi amici si imbattono in rapinatori, venditori di esseri umani e cadaveri: «Un imprenditore del luogo – continua Touray – ci ha dato lavoro e alloggio, così siamo rimasti nella città di Sebha fino a novembre. Qui però siamo stati arrestati dagli “Asma Boys”, una milizia che ci ha condotto in un centro di detenzione che era l’inferno: maltrattamenti, torture e morti. Ai prigionieri veniva intimato di chiedere ai propri familiari il riscatto, ma non tutti potevano pagare e finivano per morire di fame o per le torture. Noi abbiamo avuto la fortuna che l’imprenditore che ci aveva dato lavoro ha interceduto per noi, contribuendo a pagare la nostra liberazione coi nostri stipendi».
A quel punto il desiderio era quello di tornare a casa, ma l’imprenditore convince Touray e gli amici a partire per l’Italia, perché il viaggio a ritroso a suo modo di vedere sarebbe stato ancora più pericoloso e costoso. Così Mohammed paga il viaggio per tutti, oltre al passaggio (nascosti nel bagagliaio) fino a Tripoli: è il 10 dicembre 20216, la luna aspetta l’alba e Touray sale sul gommone con altre 138 persone, comprese donne e bambini. Nessun bagaglio a disposizione, perché ogni grammo in più può fare la differenza tra rimanere a galla e affondare: «Col vuoto del mare davanti, ti vengono i dubbi. Però io ho sempre avuto la speranza di arrivare vivo. Ci dissero che sarebbero servite 4-5 ore per attraversare il Mediterraneo, ma alle 12 dell’undici dicembre abbiamo iniziato a notare che il gommone stava per collassare. A un certo punto siamo stati affiancati da due barche in legno, che provavano a rapirci per riportarci a Tripoli e chiederci altri soldi. Siamo riusciti a scappare fin quando non abbiamo incontrato una nave Ong, che ha scacciato quelle barche e ci ha salvati. Pochi minuti e non ce l’avremmo fatta: quando il gommone stava per spezzarsi, a bordo ognuno pregava il proprio dio per salvarsi».
Touray e tutti gli altri toccano terra a Trapani il 13 dicembre 2016, dopo esser scesi da una nave dalla guardia costiera. «A mia mamma – racconta – non avevo detto che avrei fatto un viaggio del genere. Ma una volta a terra l’ho chiamata ed è stato un momento veramente emozionante. Mi manca e spero quest’anno di riuscire a tornare in Gambia per stare con la mia famiglia che non vedo da sette anni».
Una volta a terra inizia il secondo capitolo di questa vita, quello della rivincita: Touray rimane pochi giorni nel centro di accoglienza, poi viene trasferito a Corazzano di San Miniato, in una fattoria. Grazie al Movimento Shalom frequenta un corso d’italiano e consegue la licenza media; sempre con Shalom affronta il servizio civile e fonda la cooperativa “Verso il futuro” che gestisce il Caffè Bonaparte dove Touray lavora. Fa anche attività teatrale grazie all’amico (che gli ha fatto il corso d’italiano) Andrea Mancini.
Touray racconta con orgoglio di sentirsi «un italiano dentro un africano», aggiungendo che per tutti i migranti c’è la possibilità di farcela, a patto di investire in prima persona sul proprio futuro: «In Africa c’è un detto che recita: se io ti gratto la schiena, tu grattati il petto. Cioè se lo Stato ti aiuta pagandoti l’affitto o altro, tu fai qualcosa per te stesso. È fondamentale in primis imparare la lingua, perché se non riesci a comunicare rimarrai sempre uno sconosciuto».
Una storia a lieto fine che però sarebbe potuta terminare come quella dei migranti morti nel naufragio sulle coste di Cutro: «Ho pensato che sarebbe potuto accadere anche a me: credo che si debba salvare chi rischia di morire in mare, perché è inaccettabile che ciò accada. Se c’è una richiesta d’aiuto, l’autorità deve intervenire. E ognuno deve avere il diritto di spostarsi alla ricerca di un futuro migliore. Avere rotte sicure sarebbe un passo fondamentale».
Il sogno, però, rimane uno e uno soltanto: «Credo in un paese dove i migranti non raccolgano soltanto i pomodori o si occupino di accudire gli anziani ma dove italiani e stranieri abbiano la possibilità di raggiungere i traguardi che meritano, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione o altro».
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