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Pisa

La sentenza

Cisanello, morta a 33 anni dopo la caduta dal terzo piano: l’azienda sanitaria condannata a risarcire

di Pietro Barghigiani
Cisanello, morta a 33 anni dopo la caduta dal terzo piano: l’azienda sanitaria condannata a risarcire

Pisa, la donna era in un tour con un gruppo di appassionati di Harley Davidson quando rimase coinvolta nello schianto in autostrada: riconosciuti 650mila euro ai familiari di una paziente. Gli errori commessi dai medici secondo il giudice

27 settembre 2023
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PISA. Non voleva uccidersi. In uno stato di agitazione conclamato aveva cercato più volte di uscire dalla stanza. Era già capitato nei giorni del ricovero quando la donna era stata sedata e contenuta al letto con dei fasciapolsi. La notte tra il 5 e il 6 novembre 2015 la paziente, in un delirio che le impediva di percepire la realtà, vide la finestra lasciata aperta dal personale e pensò di usarla per uscire dall’ambiente. Il volo dal terzo piano le fu fatale.

La condanna

Non aver trasferito la paziente, una 33enne turista brasiliana, nel reparto di psichiatria dove avrebbe ricevuto cure e trattamenti appropriati, è costata all’Azienda ospedaliera una condanna a risarcire genitori e sorella con una somma di circa 650mila euro.

Il ricovero

Ferita in un incidente in moto sull’A12 a Massa il 19 ottobre 2015, la psichiatra nella regione di San Paolo in Brasile viene trasferita a Cisanello. Era in Italia in un tour con un gruppo di appassionati di Harley Davidson quando rimase coinvolta nello schianto in autostrada. Dalla terapia intensiva passa a quella sub-intensiva del reparto di neurochirurgia. Dopo un lieve miglioramento va nell’unità di degenza, sempre della sub-intensiva. E già in quei giorni il diario clinico racconta di una condizione “disorientata”, “agitata”, “confusa”, tanto che dopo il trasferimento all’unità di degenza viene anche “contenuta” al letto con sedativi. Il giorno c’era la madre, arrivata dal Brasile, a farle compagnia, ma la notte restava da sola.

Stato delirante

È una paziente problematica, in preda a stati deliranti che impegnano medici e infermieri. Per il Tribunale, che accoglie le consulenze tecniche disposte nel corso del procedimento avviato dai familiari della vittima, non doveva stare in quel reparto. Alle 23 del 5 novembre, poche ore prima della morte, il medico di guardia scrive: «Paziente molto agitata, confusa. Si somministri una fiala di morfina previo consulto con l’anestesista di guardia. Dopo la somministrazione del Serenase appare più tranquilla».

Alle 1, 30 la psichiatra brasiliana apre la finestra e nel tentativo di uscire dalla stanza precipita dal terzo piano. E muore sul colpo.

Non fu un suicidio

I consulenti delle parti sono d’accordo che non sia stato un suicidio. «È scarsamente probabile che il decesso della paziente sia stato il risultato di un atto di defenestrazione a scopo suicidario – scrivono i periti – . È del tutto verosimile che, invece, la precipitazione della paziente sia stato il risultato di un tentativo incongruo di allontanamento dal reparto utilizzando la finestra». Nei due giorni precedenti la caduta, la turista era stata contenuta al letto. Sul punto i consulenti hanno rilevato che «i fermapolsi utilizzati i giorni 4 e 5 novembre, costituiti da fasce di carta plastificata del tipo usa e getta annodate e dotate di strip adesivi ed applicate ai polsi della paziente non erano idonei a svolgere la funzione richiesta anche perché avrebbero potuto causare l’insorgenza di lesioni cutanee locali».

Ricovero sbagliato

Nella sentenza il giudice rileva che un ricovero appropriato avrebbe abbassato le probabilità di un gesto dall’epilogo letale. E, di contro, lasciandola dov’era sono aumentate le probabilità che non venisse seuito al meglio. Scrive: «Il ricovero in ambito specialistico psichiatrico avrebbe ridotto sensibilmente l’attuazione del gesto autolesivo, che non è stato sostenuto da una fenomenica depressiva, ma avvenuto verosimilmente per un tentativo di fuga in preda ad uno stato di alterazione dello stato di coscienza e delirio di tipo paranoideo. È bene far riferimento alle buone pratiche: solo lo specialista psichiatra avrebbe potuto definire “i criteri clinici per il ricovero” in un reparto psichiatrico o eventualmente consigliare, se il quadro psichico fosse stabilizzato, la dimissione in accordo ai neurochirurghi». In sostanza le condizioni alterate della paziente «deponevano per uno stato di delirium che avrebbe richiesto un intervento multidisciplinare con l’ausilio non solo della consulenza anestesiologica, ma anche di quella psichiatrica che avrebbe verosimilmente proceduto a dosi crescenti fino alla stabilizzazione». Non averlo fatto ha esposto la paziente al rischio di mettere a repentaglio la sua vita. È quello che successe la tragica notte di 8 anni fa.

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