Morte da amianto, ex dirigente del Pignone a processo
Il responsabile negli anni Sessanta accusato di omicidio colposo per la malattia e il decesso di un operaio
Sono almeno 80 gli ex dipendenti di Pignone ammalatisi di mesotelioma pleurico, il tumore generato dalle fibre di amianto. Una decina di loro sono morti. Una strage silenziosa che si è compiuta al Pignone ma anche in altre fabbriche della zona apuana, dove negli anni Sessanta i lavoratori erano a contatto con l’amianto senza alcuna protezione. Una scia di morti non ancora finita, come dimostra il processo apertosi in tribunale a Massa , davanti al giudice Giovanni Sgambati, per la morte di uno dei dipendenti del Pignone.
Cesare Ricci si chiamava, era saldatore nei primi anni sessanta. Si ammalò, come tanti colleghi più di trent’anni dopo – il mesotelioma è fatto così, ha tempi di latenza lunghissimi, ma quando insorge è micidiale – e morì nel 2013. Chiamato in causa per questo decesso, con l’imputazione di omicidio colposo, è l’ingegner Vincenzo Pizzini, all’epoca dei fatti dirigente dell’azienda massese. A differenza di altri procedimenti analoghi – la scia di decessi per amianto, abbiamo detto è lunga – in questo caso però aportare alla sbarra l’ex dirigente non sono stati i familiari della vittima in cerca di giustizia e risarcimento per la perdita del loro caro. No, sono stati i risultati di uno studio dell’Asl sulle patologie tumorali nei lavoratori dell’industria apuana da cui risultava un numero abnorme di casi di malattie professionali a fare aprire un fascicolo da parte della procura. «Sì Cesare lo conoscevo bene, eravamo colleghi di lavoro. Io calderaio e poi riparatore, lui saldatore. Se eravamo a contatto con l’amianto? Sì, tutti i giorni. Senza alcuna protezione.
A quei tempi che quel materiale fosse cancerogeno non si sapeva proprio». Risponde così uno dei testimoni chiamati a deporre in aula, alle domande della pubblico ministero. E ancora: «Lavoravamo in un capannone senza separazioni, anche l’ufficio del direttore (che era l’ingegner Pizzini) era lì. La polvere era dappertutto, quando entrava il sole dai finestroni sul tetto si vedeva nell’aria il luccichio della polvere di ferro... I teli di amianto servivano per coibentare i manufatti da tagliare, operazioni che venivano svolte senza protezioni. Sì, quando si saldava, mettevamo le mascherine, ma dei rischi dell’amianto nessuno ci diceva nulla. Un collega, che era stato in Svezia, raccontò che lassù dicevano che l’amianto era nocivo, faceva venire il cancro. La cosa finì lì». Una testimonianza a suo modo drammatica che peserà nel processo aggiornato al 16 gennaio