Laviosa punta ancora sull’Asia e compra una fabbrica in Cina: «I dazi? Non ci preoccupano. Lavoriamo per la quotazione in borsa»
Livorno, il presidente dell'azienda specializzata in chimica mineraria: «Acquisizione completata entro il 2025, produrremo additivi per biocarburante»
LIVORNO. La quotazione in borsa. Una nuova fabbrica in Cina. Il cambio del nome. 103 anni dopo la fondazione, il Gruppo Laviosa – 124 milioni di euro di fatturato consolidato nel 2023 e un utile di 11,5 milioni – si prepara a cambiare ancora.
Giovanni Laviosa, patron e presidente, lo racconta insieme alla figlia Olimpia, nella sala riunioni dell’azienda, affacciata sul canale Industriale e su uno dei propri siti produttivi, all’interno del quartier generale di via Leonardo Da Vinci, da cui si gestiscono le attività delle fabbriche sparse nel mondo, dalla Francia alla Spagna, dalla Turchia all’India.
Cavaliere, dalla facciata è scomparsa la storica scritta “Laviosa Chimica Mineraria Spa”.
«Chimico minerario non suona sempre così positivamente, uno immagina magari montagne sventrate. E allora abbiamo lasciato solo la scritta Laviosa. Il nome non è questione banale. Tuttavia c’è anche altro: ormai da anni abbiamo tre fondamentali linee, due nella parte industriale e una di logistica. La parte industriale ha due grandi famiglie, quella del grande consumo, vale a dire le lettiere per gatti, e quella industriale, con la bentonite con cui si fanno additivi per diversi settori di applicazione».
E poi c’è la vecchia agenzia marittima, da cui tutto è iniziato.
«Anche lì abbiamo cambiato nome: da Carlo Laviosa, mio nonno, ora siamo Laviosa Logistics. Il lavoro degli agenti negli ultimi anni si è trasformato, abbiamo iniziato a fare gli spedizionieri. Siamo diventati una società di logistica. La parte logistica è complementare a quella industriale: più il prodotto è di valore aggiunto, più lontano va e l’incidenza del trasporto è importante. L’ambizione è fare logistica anche per terzi, siamo legati all’importazione e al magazzinaggio di minerali, ma con le lettiere siamo andati più nella catena di dettaglio, nei supermercati e nei negozi».
Lei è la terza generazione di un’azienda internazionale che mantiene però le caratteristiche di azienda familiare. Al suo fianco, tra i manager di vertice, ha due dei suoi figli.
«Da tempo lavoriamo al passaggio generazionale, nel tentativo di mantenere le caratteristiche di un’azienda familiare in un contesto che deve premiare passione e capacità e non solo il fatto di appartenere a una famiglia, perché questo porrebbe molti limiti. È un processo, che abbiamo iniziato tempo fa. Dei miei 4 figli, Olimpia e Umberto lavorano in azienda, Ernesto si occupa dell’attività della nostra fattoria, Francesco studia ancora. Abbiamo stipulato un patto di famiglia, che crea regole per dividere la famiglia dalle attività, fissa un percorso. Tutto questo per non perdere il vantaggio competitivo che ha un’azienda familiare».
Qual è questo vantaggio?
«È quello che ti permette di guardare un po’ più lontano perché non abbiamo bisogno di confrontarci ogni trimestre su un numero che deve essere necessariamente migliore di quello precedente. Certo, guardiamo anche noi ai numeri, però il nostro lavoro è guardare più lontano. Il secondo vantaggio è che dobbiamo essere più veloci. Se sei un’azienda familiare e non guardi lontano, e non sei veloce, hai dei problemi. Perché perdi quel vantaggio rispetto ai gruppi grandi, che hanno più mezzi, più risorse e quando investono il 2% in ricerca e sviluppo, spostano una massa critica sullo sviluppo dei prodotti ben diversa».
Come vive un’azienda coma Laviosa la guerra dei dazi?
«Non sono particolarmente preoccupato. La globalizzazione è stata una fantastica opportunità, ma non è stata guidata. Si è cercato di far fare certe cose altrove perché si potevano fare a prezzi più bassi. Ma è mancata un’etica, perché l’idea che ha guidato i processi è stata economica».
Siamo alla fine della globalizzazione e torneremo a realizzare certe produzioni in casa?
«Non credo che si possa tornare a un periodo autarchico, perché vorrei vedere chi si mette a fare quei lavori a quelle condizioni e in che tempi».
Ma i dazi cambieranno il costo finale dei prodotti...
«Il dazio in sè, a meno che non sia di un livello estremo, è una ridistribuzione dei margini tra chi vende, chi distribuisce, e qualcuno che dovrà comprare più caro. Quindi se qualcuno dice che l’inflazione non si muove, non ci credo. Quanto poi al fatto che l’inflazione del paese che impone i dazi aumenti, che abbia impatto sulla popolazione, non lo so. Quando c’è inflazione che cresce, è difficile che qualcuno abbassi il costo del denaro. In genere si fa il contrario, perché si deve ridurre la quantità di denaro in circolazione».
Voi esportate negli Stati Uniti?
«No, cioé indirettamente».
Per questo è meno preoccupato?
«No, lo sono in termini generali. C’è un tipo di emotività che va al di sopra di quella che è la realtà. Certo che è un problema, nel senso che il concetto di globalizzazione viene messo in discussione, ma fino a che livello non lo so. Che un’attività industriale si chiuda nei confini di un paese non mi pare cosa brillante. Ma non è nemmeno brillante aver sfruttato per tutti questi anni facendo fare quei lavori a quei costi a chi non aveva lavoro».
Ma i dazi li sentirete anche voi.
«Indirettamente, come dicevo, perché magari forniamo aziende che poi lavorano per gli Stati Uniti e lì chi fa dei prodotti di alto valore aggiunto probabilmente ha meno problemi, chi fa dei prodotti di basso valore aggiunto potenzialmente li potrebbe avere. Poi che questo modo di fare politica sia abbastanza particolare, non c’è dubbio, però il nuovo presidente degli Stati Uniti da tempo aveva detto le cose che voleva fare. Quindi cosa ci si meraviglia? L’aveva detto e l’ha fatto».
Le borse hanno accusato il colpo. Non è solo emotività, ci saranno fatturati e marginalità ridotte.
«La reazione dei mercati è come sempre molto emotiva. Stamani parlavamo dell’effetto sui costi dei prodotti energetici: crollati. Perché il petrolio è andato a 60 dollari? Cosa è successo? Nulla. È semplicemente una questione di speculazione. Davanti a 60 dollari ho detto: è talmente basso il costo dell’energia che lo blocchiamo. Potevamo aspettare ma non siamo un’azienda che fa speculazione, raggiunta quella che è la nostra aspettativa di budget, che ci importa di guadagnare di più? Andremmo a fare un altro mestiere che non è il nostro, e potremmo anche perdere di più».
Insomma, un imprenditore deve saper trovare opportunità ma anche fermarsi?
«È un periodo interessante, soprattutto per il posizionamento strategico di un’attività. Stiamo investendo in Cina, con condizioni favorevoli non legate al costo della manodopera ma alle materie prime. Compreremo un’azienda cinese che fa additivi che servono per le pitture – produzione che facciamo anche qui a Livorno –, ma che fa anche prodotti che servono per trattare gli oli vegetali per renderli biocombustibili».
Dunque diversificherete ancora?
«Il settore è interessante: elettrico, non elettrico, biofuel, non biofuel. Non sono così sicuro della svolta universale della produzione di energie elettriche anche automobilistiche. L’azienda che andiamo a comprare fa additivi per biofuel, tra cui prodotti che si possono vendere negli Usa. Ma l’investimento lo faremo lo stesso. Vogliamo perfezionarlo entro fine anno».
L’Asia diventa sempre più strategica per voi.
«Abbiamo già una piccola partecipazione in un’azienda cinese che fa lo stesso lavoro, perché da tanti anni pensiamo che in Cina ci siano delle condizioni particolari. E poi c’è l’India, dove siamo da 15 anni. Nella strategia vediamo crescita e consolidamento per l’attività dei prodotti per gli animali in Europa e mi auguro anche nel Middle East, e una crescita dei prodotti industriali in India, che è stata la nostra grande scommessa».
L’altra sfida sarà la in borsa.
«Ci andremo. È il nostro obiettivo per tre motivi. Il primo: avere qualche regola in più è una garanzia. Due: è un buon sistema per dare continuità a un’azienda specialmente familiare, perché dà un valore oggettivo. Ora abbiamo un socio di minoranza al 35%, nella parte industriale, ma in borsa andrà la società di controllo, che è della nostra famiglia, io, i miei figli e un cugino. E poi c’è il terzo motivo: la borsa dà strumenti finanziari».
Soldi...
«Oggi probabilmente non sarebbe il primo pensiero. Nel senso che l’azienda si può finanziare, ma fino a un certo punto, per mantenere un certo equilibrio finanziario, cosa che abbiamo sempre fatto. Ma così non si cresce tantissimo. Se prendiamo l’Ebidta siamo tra 21 e 22 milioni di euro, l’indice che conta è quanto indebitamento si ha rispetto all’Ebidta in un anno, noi siamo a 1, il massimo dovrebbe essere 3 dunque margine ne abbiamo. Però, siccome bisogna essere anche prudenti e non tutti gli investimenti vanno bene, noi investiamo tra i 6 e gli 8 milioni l’anno, ma per fare un passo grosso, si deve investire di più. E per crescere o fai un’acquisizione significativa, o fai un investimento molto significativo, che va al di là di quell’equilibrio. La borsa dà una accelerazione a questi processi. L’operazione la faremo al 100% di aumento di capitale, quindi tutto quello che entra servirà per l’azienda».
Dal suo ufficio alla Darsena Europa ci sono poche centinaia di metri. Come vede le diatribe in porto?
«Mi colpisce come i tempi per la realizzazione di un progetto siano così lunghi. Perché quando hai realizzato il progetto, magari l’esigenza è stata coperta da qualcun altro. Ma c’è un ruolo che soltanto uno Stato può avere nel fare una pianificazione di lungo termine per le infrastrutture, perché un privato non lo farebbe mai, e quel ruolo qui è giocato bene dal pubblico. A Livorno c’è troppa conflittualità, ma ci sono imprenditori bravi, che hanno un orizzonte ampio. Se arriva la Darsena Europa, incominciamo a pensare prima, a che cosa succederà delle aree che non saranno più utilizzate dai contenitori».
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