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Commercio: la storia

Addio Balloni, il chiosco dei sogni: «Qui la vita è stata un bel gioco». Le puntate a mezzanotte e quel “13” del corniciaio Petrucci

di Flavio Lombardi
Il chiosco quando era ancora dall’altra parte di piazza Cavour. Accanto la ruspa che nei giorni scorsi ha abbattuto il chiosco
Il chiosco quando era ancora dall’altra parte di piazza Cavour. Accanto la ruspa che nei giorni scorsi ha abbattuto il chiosco

Livorno: per 60 anni è stata la ricevitoria dove i livornesi hanno tentato la fortuna. Dal Totocalcio al Totip, fino alla Lotteria e ai biglietti per stadio e palazzetto. La struttura in piazza Cavour abbattuta da una ruspa nei giorni scorsi: «Finisce un’era»

07 ottobre 2023
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LIVORNO. Un colpo di ruspa ha spazzato via sogni, ricordi e speranze di generazioni di livornesi. Il 25 di settembre, è stato l’ultimo giorno in cui un altro angolo di Livorno ha mantenuto la caratteristica alla quale eravamo talmente abituati, da non farci più caso quando a piedi ci si passava fino a sfiorarlo. Nulla però da adesso sarà come prima, dopo che un mezzo meccanico ha rimosso la baracchina del chiosco Balloni, celebre ricevitoria e rivendita di biglietti per lo stadio e il palazzetto. Per i pochi che non lo sapessero è quel punto della piazza Cavour dove a un tiro di schioppo potersi recare a prendere un caffè al bar Folletto, o girare inforcando via Sansoni, stradina dalla quale si accedeva poi in via de Lanzi, nel bel periodo che si identifica negli anni Ottanta, come sede di pellegrinaggio per i giovani appassionati di musica varcando l’uscio di Emo Hi-Fi.

Gli inizi e la Topolino

In meno di un’ora, è stata cancellata una storia iniziata nell’immediato dopoguerra, quando l’attività cominciata da Fausto Balloni con la moglie Mary, era di ambulante del settore. Fu il primo a Livorno a offrire questo servizio, ingegnandosi e intuendo la grande opportunità. Copriva tutti i rioni per permettere di giocare la schedina della Sisal a tutti quelli che volevano farlo. Un richiamo per gli uomini, come le sirene per Ulisse, vedendo arrivare quella Topolino che una volta parcheggiata apriva sportelli, spianava i banchetti per avere un punto d’appoggio w scrivere il pronostico: 1X2. Poco complicato ufficializzare la giocata. Niente macchina validatrice, non c’era bisogno di avere la corrente. C’era una striscia che si incollava sulla schedina, con i numeri di serie corrispondenti sia per la figlia (che restava in possesso di chi giocava) che per la matrice. Parti che poi si separavano dividendole “a strappo” con l’aiuto di un righello. Le persone sciamavano senza sosta. Era il miraggio di una vita agiata, ideata dal giornalista della Gazzetta, Massimo Della Pergola, che portò al primo concorso, il 5 maggio 1946, e col tagliando di colore rosa. Ovviamente, con gli amaranto in serie A, il pronostico numero 4 fu un Pro Livorno-Roma finito con un salomonico pari. La giocata aveva un costo di 30 lire, il montepremi di 463.146 lire ed Emilio Biasotti azzeccò 12 risultati su 12 (l’istituzione del 13 arrivò il 21 gennaio 1951) incassando la forte vincita. Impiegato romano, mise in banca una somma equivalente a quattro anni di stipendio di un operaio. Allora, ingenuamente, sul retro della parte che veniva ritirata, c’era lo spazio per mettere le generalità dello scommettitore che, scrivendo il proprio nome, non si curava se in caso di vincita, avrebbe rischiato visite continue di parenti ed amici in cerca di prestiti da restituire o anche no.

Il tredici di Petrucci

È il motivo per cui si seppe qualche anno dopo, di Danilo Petrucci, corniciaio in via dell’Indipendenza che nel’ 52 fece dal Balloni un 13 da 78 milioni di lire, straordinario per l’epoca. Si può dire che il potere di acquisto permetteva, con quei soldi, di comprare almeno una trentina di appartamenti di buona pezzatura in palazzi di nuova costruzione. «Si era già passati in quel periodo alla seconda fase dell’attività – dice Gabriele, nipote del capostipite – quella in cui il punto era diventato fisso in piazza Cavour, ma all’angolo con via Ginori, dove c’è la farmacia e dove si trova Milchestrasse. Il chiosco era una motrice di un trammino, con tanto di targa. Babbo Franco mi ha raccontato che quel signore poi non riuscì a conservare la fortuna che gli era capitata, a causa di certi investimenti sbagliati».

La seconda generazione

Piano piano, arriva appunto la seconda generazione con Franco, il figlio di Fausto, uomo di alta statura e di elegante portamento. Occhi azzurri che si illuminavano sempre quando si parlava di pallone e quando specialmente si parlava del Livorno. Fu tra i fondatori storici del Club Mario Magnozzi. Nel’59, lo spostamento definitivo, quello dove la memoria di quasi tutti i livornesi posizionano il chiosco. Una parte della baracchina, adibita alle giocate, all’esposizione del tabellone a slitta che scendeva, dove si inserivano i segni della schedina a fine delle partite per far controllare subito alle persone il proprio tagliando e che poi veniva riportato nella giusta posizione per essere letto anche a metri di distanza. Ma per chi si trovava ancora più lontano, c’era la possibilità di scorgere l’asta dalla quale si poteva capire l’esito del match dell’Unione Sportiva. Se si scorgeva issata la bandiera amaranto, significava che gli amaranto avevano vinto, oppure se in trasferta, almeno pareggiato. Se il drappo restava nel cassetto, significava che all’Ardenza il Livorno non aveva preso l’intera posta, oppure che aveva perso fuori.

I più curiosi, potevano avvicinarsi anche per prendere il Giornalino, il primo organo di informazione sportiva che usciva di stampa mentre i giocatori facevano ancora la doccia. Dalla parte che guardava la via Cairoli, anche l’edicola per la vendita di quotidiani e riviste, poi ceduta. Il lavoro non mancava del resto. Li dentro c’era ormai in pianta stabile Franco, la moglie Graziella, ancora sua mamma e anche Sara, una signora che nel fine settimana arrivava a dare una mano.

«Il sabato sera, era un delirio, le giocate finivano a mezzanotte e c’era sempre la coda inesauribile. I Balloni arrivavano al punto di raccolta Sisal in scali del Pesce in Venezia vicino alla vecchia caserma dei vigili del fuoco, sempre in ritardo. Ormai lo sapevano. Del resto, fummo anche premiati come terza ricevitoria della Toscana per volume di gioco registrato – aggiunge Gabriele-. Si pensi, che mio padre, assieme a mio fratello Luca, sono stati i primi in città a elaborare in seguito il sistema ridotto del Totocalcio. Un periodo in cui i computer non c’erano ancora e si faceva tutto a mano».

La dea bendata

La chiamavano la ricevitoria fortunata. Nel ’92, la lotteria Italia infatti, si ricordò anche di Livorno con un robusto premio di seconda categoria. «Cento milioni vinti da un cliente abituale che risiedeva nella zona. E che si presentò da babbo con cinquecentomila lire. Sapeva che mi stavo comprando la macchina, un’Alfa 33, e con quei soldi volle farmi un regalo contribuendo all’acquisto dell’autoradio». Ma anche un paio di 5 al Superenalotto hanno fatto tremare il banco. Da lì, ritrovo vero degli sportivi, sono partiti anche i festeggiamenti quando il Livorno tornò in serie B con Guido Mazzetti in panchina e un attacco guidato da “Pecos Bill” Virgili, con Gigi Mascalaito sua privilegiata spalla (un po’come tanti anni dopo fu con Lucarelli e Protti) e lì, per immemore periodo, si sono venduti i biglietti per lo stadio: «Quante volte babbo o il sottoscritto, si è dovuti andare a fare nuovo rifornimento da Piero Mazzoni perché avevamo terminato la dotazione assegnata…».

Ricevitoria amaranto

Un idillio con il Livorno, terminato nei primi anni della presidenza Spinelli. «Cominciavano i circuiti di vendita, poi anche all’Ipercoop; sembrava ci facessero un favore a concedere i biglietti e in società non davano mai una risposta chiara. In fin dei conti, per noi era un introito limitato, lo vedevamo più come un servizio da dare alla gente. All’ennesima mezza risposta, decisi io. Interrompendo il rapporto. Una cosa brutta, perché per decine di anni, fino alla domenica mattina eravamo aperti alla vendita, e ricordo che da ragazzetto, mia madre ci faceva pranzare in fretta (allora le partite cominciavano alle 14, 30 ndr) , per permetterci di andare allo stadio a un orario in cui babbo portava prima i tagliandi invenduti e il relativo incasso. Dopo i 90 minuti di calcio, anche noi si faceva la famosa doppietta, andando al palazzetto, quando giocava la Peroni. Al chiosco, la domenica pomeriggio, in quelle occasioni, ci stava mamma».

Il Balloni, per tanti quasi sessantenni significa anche file interminabili per l’acquisto del ticket per la partita di pallacanestro. E per i derby, appena sapevi che erano arrivati i biglietti, scattava il passaparola. I cellulari non c’erano, ma in poco tempo era tutto congestionato e il rosario di persone arrivava fino all’angolo con scali D’Azeglio. E qualcuno ricorda ancora di essere arrivato finalmente al proprio turno e vivere una scena fantozziana: «Bimbo, son finiti».

La parabola degli affari

I primi scricchiolii, quando arrivò il Totogol, inizio anni ’90. Che piano piano soppiantò la classica schedina. Poi anche il Totip che fino a pochi anni prima sponsorizzava anche una grande scuderia del rally mondiale dopo il ritiro della Lancia ufficiale, entrò in sofferenza. Ma si agguantava bene lo stesso, soprattutto con l’avvento dei gratta e vinci. Il colpo più duro, con le scommesse in agenzia. Il segno di pronosticare sulla partita secca, il risultato finale, la possibilità di legare la giocata ad altri due o tre eventi anche diversi, la immediata riscossione eventuale. Finisce gratamente, spegnendosi come una candela arrivata al mattino, la poesia dei bei tempi che furono e il romanticismo della scommessa sportiva per come era nata.

L’attività viene ceduta nel 2009 pochi giorni dopo la morte di Franco e il nuovo proprietario diventa Marco Bernini pur restando con la medesima ragione sociale. Mantenuta anche con l’ultimo proprietario, Luca Barsotti.

La persona che con il groppo in gola, ha salutato un pezzo della nostra storia. Di noi, che ci sentiamo un po’ tutti, figli “der Balloni”.

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