La città del Rinascimento scopre il caos futurista dell’asfalto a volte utile a volte ostaggio del Pnrr. Cantieri, disagi e resilienza urbana
Firenze non è una città morta. Si muove, per cambiare deve farsi male, i cantieri sono la fisioterapia dolorosa della città viva: ma c’è una regia?
FIRENZE Nella città dove tutto è cominciato - l’Umanesimo, la lingua, l’arte come mestiere e la politica come tragedia - tutto rischia di fermarsi. In movimento. Come un quadro di Boccioni, ma con meno slancio e più divieti. Da domani, infatti, Firenze entra ufficialmente nella stagione estiva delle chiusure e delle deviazioni: un’operazione urbana che pare organizzata da Pirandello, sceneggiata da Mario Monicelli, ma approvata con determina comunale. Ci saranno i lavori della tramvia, che si chiamano così per evitare di dire “buche”, “transenne”, “betoniere”.
E poi quelli di Publiacqua, un nome che sembra gentile, ma porta con sé ruspe, tubi sfilati come budella, asfalto spaccato e vie interrotte. Più che la culla del Rinascimento, Firenze pare diventata la culla della resilienza urbana. Come si dice oggi, quando non si vuole dire che la città è un casino. In particolare, si chiude viuzzo del Pozzetto, nome adorabile che suona come un cartone animato per bambini - e invece è un incubo logistico -, mentre viale Giannotti si trasforma in una pista d’atterraggio notturna per rotaie tranviarie. Chiuderanno o si restringeranno a scacchiera anche lungarno Vespucci, via Masaccio, via degli Artisti, piazza Ferrucci, via di Villamagna, lungarno delle Grazie, via Romana. Una lista che sembra la bibliografia di un urbanista disilluso o la topografia di una ritirata. E poi ci sono i lavori di “mitigazione del rischio idraulico”. Ah, il linguaggio tecnico, quella neolingua che trasforma la paura in procedura: si chiamano così i lavori sul lungarno delle Grazie, perché dire “evitare che l’Arno esondi” fa troppo alluvione del ’66, mentre così sembra quasi un corso di yoga per fiumi.
Nel frattempo, via Bolognese - quella che collega Firenze al Mugello - resta chiusa. Non per una frana, che avrebbe almeno il fascino elementare della Natura che si ribella. Ma per lavori, “tecnici”, sempre di Publiacqua, che è ovunque, e non si capisce più un tubo di che cosa faccia. Il risultato è quello che potete immaginare: ingorghi a grappolo, lenti e disperati, automobilisti appesi alla radio e alla speranza, e il traffico che ogni giorno si riorganizza come un esercito sconfitto, cercando una via di fuga tra le deviazioni dei bus, le zone interdette, i cartelli gialli, le navette e le mappe digitali. Firenze insomma diventa un videogioco per pendolari frustrati, che ogni mattina si svegliano, aprono Google Maps e dicono: “Vediamo oggi dove ci mandano”.
Autolinee Toscane fa quello che può. Invia comunicati cortesi, invita i cittadini a usare l’app, a registrarsi sul sito, a selezionare le linee preferite. Come se il problema fosse l’informazione e non l’angoscia esistenziale di chi, per andare da Rifredi a Gavinana, ci mette più che in treno da Firenze a Roma. Le linee coinvolte? 6, 10, 11, 17, 20, 23, C2, C3. Un alfabeto dell’emergenza, una filastrocca urbana che recitano ormai anche i bambini. A Borgo San Frediano, quartiere pop e borghese, romanticizzato dai turisti ma ancora abitato da pochi veri fiorentini, si consuma uno dei piccoli paradossi dell’estate fiorentina: lì, in deroga all’ordinario, si è deciso di far passare più bus - come eccezione, non come regola.
Perché ormai il trasporto pubblico in Italia funziona più per eccezioni che per sistema. Tutto questo potrebbe anche far sorridere, se non fosse la sintesi precisa del modo in cui le città italiane - e non solo Firenze, intendiamoci, ma qui c’è un certo accanimento - affrontano la modernità: con una politica dei cantieri, che non è sempre la progettazione del futuro ma la gestione stanca del presente. Si scava perché ci sono i fondi del Pnrr. E si scava contemporaneamente, perché altrimenti si perdono. Così, mentre il governo discute di “semplificazione”, a Firenze si fa la coda in via Romana, tra un marciapiede da abbattere e un autobus da deviare. Il tutto avviene nel consueto tono da “allarme temporaneo”, ma il sospetto - ormai palpabile - è che la provvisorietà sia diventata una forma di permanenza.
Firenze come metafora, dunque: la complessità italiana che non riesce a semplificarsi, nemmeno quando ci prova. Una burocrazia urbana che mette le scarpe da ginnastica ma corre con le zavorre. Firenze, certo, non è una città morta. Si muove, prova a cambiare, e per cambiare deve farsi male. I cantieri sono la fisioterapia dolorosa della città viva. Non si può pretendere la modernità senza accettare il rumore del martello pneumatico. E tuttavia, ciò che pare mancare è una regia, un pensiero urbano che non sia solo un accatastamento di interventi.
E allora, come sempre, saranno i cittadini a trovare il modo di cavarsela. A piedi, in bici, in scooter, oppure con quella pazienza antica che trasforma il fastidio in rassegnazione e l’imprevisto in abitudine. In fondo, anche Dante si perse per le vie oscure prima di trovare la retta via. Solo che lui poi arrivò in Paradiso. A noi, per ora, tocca la Faentina in fila alle otto del mattino.