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In tribunale

Quel tweet contro Renzi fu diffamatorio: la moglie di Brunetta condannata a risarcire

di Pietro Barghigiani
Quel tweet contro Renzi fu diffamatorio: la moglie di Brunetta condannata a risarcire

Il senatore ha vinto la causa contro la moglie dell’ex ministro

06 gennaio 2023
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FIRENZE. Un tweet velenoso e dal carico diffamatorio. E scritto pure sotto false generalità. Una paternità che per mesi rimase misteriosa anche perché l’account era attribuito a un nome di fantasia, Beatrice Di Maio che, visto il cognome, ingenerò pure una presunta responsabilità grillina nel ventilatore mefitico sparato sui social tanto da provocare un’interrogazione parlamentare del Pd.

Alla fine, fu la stessa autrice del tweet a svelare, nel corso di un’intervista, la propria identità dando sostanza alla querelle politica diventata poi querela.Il 7 aprile 2016, a diffondere quel cinguettio, scrivendo «ho le foto di Delrio coi mafiosi» sotto una serie di immagini con l’allora ministro delle Infrastrutture accanto al premier Matteo Renzi e i ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, fu Tommasa Ottaviani Giovannoni, 58 anni, nata e residente a Roma. Un nome ignoto ai più, ma che da coniugata assume un altro interesse: era ed è la moglie dell’ex ministro Renato Brunetta.Per quel tweet la consorte dell’ex forzista, ignaro dell’uso disinvolto dei social da parte della moglie, conosciuta anche con lo pseudonimo di "Titti Brunetta", è stata condannata per diffamazione aggravata a risarcire il senatore Renzi con una somma di 20mila euro, a cui vanno aggiunte le spese legali per oltre 5mila euro.

La sentenza del Tribunale di Firenze è stata depositata dal giudice Susanna Zanda in questi giorni. Renzi chiedeva mezzo milione di euro di danni. Nel 2018 anche Lotti aveva querelato la moglie di Brunetta ottenendo un decreto penale di condanna di 1.500 euro a carico dell’esternatrice dalla mira sbilenca che poi si era scusata.

Il tweet incriminato

Sull’account certificato Twitter (twitter.com/beatricedimaio; @beatricedimaio) riconducibile a Tommasa Giovannoni, il 7 aprile di 6 anni fa apparve un post contenente una serie di fotografie che ritraevano l’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio durante incontri e attività istituzionali.

Nelle foto Delrio appariva con gli allora ministri Lotti e Boschi e il presidente del Consiglio, Renzi. A corredo della sequenza la didascalia fatale: «Ho le foto di Delrio coi mafiosi». E in un altro post: «Intercettazioni Guidi: ho le foto dei mafiosi».

La querela

Nella lunga battaglia per difendere la propria onorabilità a colpi di querele, il leader di Italia Viva ha già incassato cifre considerevoli. La maggior parte sono giornalisti con una particolare consuetudine per il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Nel caso di lady Brunetta ha atteso quasi 5 anni prima di chiedere i danni dopo essere stato qualificato come mafioso. La Giovannoni aveva estrapolato dal contesto di un’inchiesta della Procura di Potenza una frase intercettata ed effettivamente pronunciata, ma da un consulente del ministero e non dalla ministra (Federica Guidi, ndr).

L’intercettazione

Tra le intercettazioni pubblicate dai giornali veniva riportata la frase divenuta simbolo dell’inchiesta: «Ho le foto di Delrio con i mafiosi». La pubblicazione di quelle parole, tirate fuori dalle intercettazioni e non contestualizzate, scatenò un vero e proprio ginepraio mediatico che divenne l’humus da cui la moglie dell’ex ministro concepì il tweet diffamatorio.La difesa La moglie di Brunetta ha argomentato di aver ricondotto al contesto politico le frasi che, a suo dire, in maniera strumentale Renzi avrebbe utilizzato nella denuncia contro di lei anche perché aveva motivo di avercela con «l’allora capogruppo di Forza Italia alla Camera dei Deputati nonché coordinatore nazionale del "Comitato per il NO alla riforma costituzionale Renzi-Boschi della seconda parte della Costituzione", cioè a dire uno dei principali antagonisti alla Riforma tanto voluta da Renzi». Niente diffamazione, dunque, ma solo lotta politica secondo la querelata. Solo che, rileva la giudice, una cosa è esprimere un’opinione anche forte, un’altra dare del mafioso a un politico senza avere il minimo riscontro storico e giudiziario.La sentenzaRenzi non era coinvolto nell’inchiesta Total di Potenza - lavori di realizzazione del centro oli a Tempa Rossa - (tutti assolti o prescritti tra primo e secondo grado). «Per cui quand’anche si volesse associare il tweet ex post allo scandalo Guidi, per parlare di "mafia" intesa in gergo moderno come affarismo, sviamento dal fine pubblico e interessi privati in atti d’ufficio, comunque il presidente del Consiglio Renzi non aveva motivo di essere accostato a questa circostanza realmente accaduta dell’intercettazione, per essere lui epitetato come un mafioso in questo senso e ancor meno in senso criminale di mafia come organizzazione strutturata», scrive la giudice.

Le foto

Circolavano in quel periodo foto relative al ministro Delrio «che stringe la mano a un uomo appartenente alla ’ndrangheta in occasione di un suo viaggio istituzionale (quale sindaco di Reggio Emilia) a Cutro». Prosegue la sentenza: «Considerando l’intercettazione telefonica della ministra Guidi e Panzesi che riferiscono di favoritismi con emendamenti alla legge di Bilancio, in ogni caso non è risultato vero che l’attore (Renzi, ndr), all’epoca presidente del Consiglio, avesse un diretto coinvolgimento con queste circostanze di fatto e intercettazioni non venendone menzionato».

La diffamazione

Per il Tribunale la foto dei "mafiosi" che ritrae il leader di Italia Viva «assume un carattere di gratuito svilimento della sua onorabilità di fronte all’opinione pubblica, con una forma espressiva incontinente». L’aver collegato questo epiteto in un tweet ai tre politici nelle foto, «tra cui quella che riguarda l’attuale senatore Renzi, senza che sussistesse alcun elemento fattuale che potesse giustificarlo, rende fondata la domanda risarcitoria, per difetto dell’elemento della verità e della continenza, traducendosi in offesa gratuita che esula sia dalla critica politica, sia dalla satira politica che, come dice la stessa convenuta, presuppone un fatto vero che venga poi deformato»
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