Il Tirreno

La sentenza

Rosignano, «Coltivavano la cannabis in casa»: padre e figlio condannati a 14 mesi

di Stefano Taglione
Alcune piante di cannabis (foto d'archivio)
Alcune piante di cannabis (foto d'archivio)

Sentenza definitiva della Cassazione per un bagnino e un perito elettronico di Rosignano. Si erano difesi spiegando che l’uso della droga era personale: furono sequestrati un chilo di marijuana e 27 piantine

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ROSIGNANO. Nella loro abitazione i carabinieri avevano trovato e sequestrato «circa un chilo di marijuana – si legge negli atti processuali – 50,5 grammi di hashish, nonché ulteriori 27 piante di marijuana, stupefacente in relazione al quale è stato accertato che il valore del principio attivo superava di 125 volte il limite massimo previsto dalla legislazione vigente». Per questo i rosignanesi Roberto Leoncini, 54 anni e perito elettronico, e il maestro di sci e bagnino Mattia Tommaso Leoncini, di 35 – padre e figlio, il primo nato a Livorno e il secondo a Cecina – sono stati condannati a 14 mesi di reclusione per coltivazione di canapa. Nei giorni scorsi, infatti, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della corte d’appello di Firenze, che aveva ridotto la pronuncia di primo grado risalente al 23 marzo del 2021. I due familiari, difesi dall’avvocato livornese Fabio Ercolini, hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato, che include già lo sconto automatico di un terzo della pena. Le indagini, coordinate dalla procura labronica, erano state svolte dai militari dell’Arma della Compagnia di Cecina, che avevano poi proceduto alla perquisizione.

La vicenda

La perquisizione dei carabinieri della stazione rosignanese, come anticipato, aveva portato al sequestro e alla denuncia del padre e del figlio, che – secondo quanto ricostruito – non avrebbero comunque mai spacciato droga. Si sarebbero limitati, insomma, a coltivare la cannabis per farne un uso esclusivamente personale, non destinandola mai quindi al mercato rosignanese. Dopo la sentenza di primo grado, da parte del giudice per le indagini preliminari Marco Sacquegna, il legale livornese Ercolini aveva proposto ricorso in appello, con il tribunale che ha ridotto la condanna, pur non riconoscendo la modica quantità di stupefacente invocata dalla difesa, anche in relazione al diverso grado di maturazione, e quindi di principio attivo presente, nelle piante sequestrate.

Il ricorso

La difesa ha fatto nuovamente ricorso ritenendo che i due imputati facessero un uso esclusivamente personale dello stupefacente sequestrato. «La Corte ha, altresì – si legge nella sentenza dello scorso 10 giugno, presidente la giudice Donatella Ferranti e relatrice Maria Teresa Arena – valorizzato le modalità di conservazione dello stupefacente trovato già in due pacchetti utilizzando involucri di cellophane sottovuoto oltre la presenza di una bilancina che presentava tracce di stupefacente a dimostrazione di recenti pesature. Con tutto quanto sopra esposto, il ricorso non si confronta limitandosi a ribadire che i due imputati erano assuntori di droga e che il quantitativo rinvenuto, alla stregua della droga coltivata, era destinata al loro consumo personale». Per questo i giudici hanno disposto «la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla somma di tremila euro ciascuno in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero».

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