Referendum, il paradosso del lavoro dimenticato: chi ne avrebbe più bisogno non ha votato
Mentre i territori più colpiti dalla disoccupazione hanno disertato le urne, il referendum sul lavoro fallisce la sua missione. Dati e analisi di una frattura tra politica, partecipazione e condizioni reali del Paese
Facciamo un gioco mentale. Immaginiamo di andare in uno stadio pieno e consegnare ai tifosi un quesito referendario per la scelta del nuovo Ct della nazionale. E poi in un qualunque ufficio d’Italia e sottoporre a impiegate e impiegati un referendum per modificare alcuni aspetti del lavoro quotidiano che non gradiscono. E infine di andare nelle regioni e nelle province con più disoccupazione e chiedere agli abitanti di esprimersi sui licenziamenti e la sicurezza del lavoro. In tutti e tre i casi ci aspetteremo quote di partecipazione al voto quantomeno superiore al 50% (persino al 90% allo stadio…). No? No. Perché almeno in un’occasione dovremmo assistere al paradosso dell’indifferenza rispetto a un tema apparentemente d’interesse collettivo.
Meno lavoro, meno affluenza: il dato delle regioni
A consegnarci questa consapevolezza, si sarà capito, è stato il fallimento del referendum dell’8-9 giugno. In particolare per i quattro quesiti riguardanti il lavoro. A parlare sono i numeri. Nel 2024 secondo i dati Istat sono tre le regioni che superano la doppia cifra per disoccupazione totale: Calabria, Campania e Sicilia. Due su tre (Sicilia e Calabria) le ritroviamo al fondo della classifica per l’affluenza al referendum. E se è vero che regioni come il Friuli e il Veneto hanno percentuali di affluenza simili, pur essendo tra quelle con il tasso di disoccupazione tra i più bassi in Italia, è altrettanto plausibile affermare che si tratta di territori storicamente orientati a destra, che verosimilmente hanno sentito il richiamo della propaganda del “non-voto” del governo. Discorso analogo vale per le regioni (ma anche le province) “rosse”, dove l’affluenza è stata più alta. Effetti, in parte, della politicizzazione del referendum.
Altri indizi che depongono a favore di questa “strana” correlazione suggestiva tra disoccupazione e disinteressa al referendum sul lavoro si riscontrano andando a guardare i dati di Puglia, Molise e Abruzzo (quarta, quinta e sesta regione per disoccupati): tutte rimaste sotto la media di affluenza nazionale al voto per il referendum.
La situazione delle province toscane
Per provare a trarre qualche indicazione di più dai numeri passiamo alla Toscana. Qui, con il 4% di disoccupazione, uno dei dati migliori nel Paese, la percentuale di chi si è recato alle urne è al 39,1%. La più alta d’Italia. Ma è dall’analisi del voto nelle province che si traggono elementi di continuità con la tesi della correlazione che si sta abbozzando.
Il dato più basso sull’affluenza si registra in provincia di Grosseto (31,46%, otto punti sotto la media regionale). Ebbene, si tratta della terza provincia con il tasso di disoccupazione più alto in Toscana (5,2%). La prima è Pistoia (6,5%), che con il suo 35,14% è sotto di quattro punti alla media regionale. E Massa-Carrara che con il suo 6,2% di disoccupati ha portato alle urne il 33,3% degli aventi diritto.
Capovolgendo la piramide l’impressione è anche più netta: Firenze, Siena e Prato sono le province con meno disoccupati. Le prime due hanno superato la soglia del 39,09% toscana (Firenze ampiamente, 46%), con Prato che si è fermata poco sotto, 37,46%.
Il lavoro reale nel Paese: un tema rimasto in ombra
Quelle che in modo approssimativo vengono chiamate periferie, quei luoghi e quelle comunità dove inflazione, erosione del welfare e impoverimento del lavoro hanno martellato più forte sulle condizioni di vita, sono quelle dove gli appelli per la difesa dei diritti e per l’esercizio della democrazia diretta hanno avuto meno effetto. Lo ha notato anche un’analisi socio-demografica fatta a caldo da Youtrend: “A trainare finora il voto dei referendum sono stati maggiormente i comuni con più elettori laureati”.
Restano più interrogativi che certezze, com'è giusto che sia quando si propone un’ipotesi più evocativa che dimostrata. Ma sono domande che toccano il cuore della storia democratica del Paese. Se davvero vogliamo colmare il divario tra cittadini e istituzioni, dobbiamo tornare a investire nella formazione civica, immaginare forme di partecipazione più accessibili e inclusive, ripensare strumenti come il referendum perché siano davvero comprensibili e coinvolgenti. E soprattutto, ricucire il legame – oggi troppo spesso lacerato – tra la politica e la vita concreta delle persone.