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La primaria (e attrice) livornese: «Mi distraggo con scrittura e teatro ma la mia vita è dentro l’ospedale»
Valentina Batini si racconta: «La passione per la medicina è sbocciata per caso durante una lezione di fisiologia»
LIVORNO. Livornesissima di nascita e di cuore, Valentina Batini compirà 54 anni a luglio. Terza di quattro fratelli (di cui va orgogliosa), confida che la sua è una famiglia un po’ folle, tanto stimolante quanto ingombrante. «Una famiglia che mi ha dato tanto, a volte troppo. Così sono cresciuta un po' leonessa in una gabbia di matti».
I suoi genitori?
«Due tsunami , instancabili per vocazione. Mio padre, mente brillante e ironia di professione: lui non parla, intrattiene. Mia madre, avanguardista e coraggiosa, tra le prime donne a vincere il concorso da notaio, anche se poi ha scelto l’avvocatura. Mi ha portata a fare il giro del mondo a quindici anni e, fra le mille spinte, mi ha fatto studiare anche il russo, una lingua che poi ho finito per amare».
Vive ancora in famiglia?
«No. Con mio figlio, Orlando, che ha 17 anni e un animo gentile».
Quando ha deciso di diventare medico?
«Dopo il liceo e una crisi esistenziale, senza idee precise: veterinaria, lettere, giurisprudenza... Un pomeriggio di primavera, a Pisa, entrai per caso in un’aula ad ascoltare una lezione di fisiologia. Una grande scoperta, che mi fece capire quale avrebbe dovuto essere la mia strada. Passai l’esame di ammissione, e completai i 56 esami nei sei anni previsti. Era destino. Anni dopo trovai un mio quaderno della prima elementare in cui scrivevo “da grande voglio fare la dottoressa”».
A nefrologia come ci è arrivata?
«Grazie a mia sorella. Lei, appena laureata (a 22 anni, in economia, al Sant’Anna) si trasferì in Inghilterra e fece amicizia con un nefrologo inglese, che mi accolse al King’s College di Londra come visiting student (successivamente ci sarei andata per un anno durante la specializzazione). Lì conobbi nefrologia: una disciplina raffinata, intellettuale, sicuramente completa, che annovera cronicità, acuzie, interventistica, trapiantologia, e molto altro. Il rene fa quasi tutto, senza mettersi in mostra, è equilibrato (mantiene finissimi, geniali e vitali equilibri), è nella stanza dei bottoni senza vantarsene, però di lui (lei?) se ne può alla fine fare a meno, a differenza di altri organi, prima di tutto perché nel corpo ce ne sono due, e nel caso in cui vengano meno entrambi, perché esiste la dialisi».
Dottoressa Batini, lei da tempo tiene un blog. Quando ha deciso di raccontarsi via social?
«In realtà sono anti social. Ma anni fa però iniziai con Facebook, soltanto per il gusto di scrivere. Ma mi annoiavo. Così ho aperto il blog, per esprimermi, ma in semi anonimato».
Nel suo blog confessa: “Sono un medico, ma mi piace scrivere e adoro il cocktail Martini”. Un abbinamento originale, cocktail e scrittura. Ma il camice, si spera, lo indossa da sobria. Ce lo conferma?
«Ah ah ah. Sono decisamente sobria, anche se spesso mi aiuterebbe non esserlo. Cocktail e scrittura sono molto simili. In entrambi si mescolano ingredienti per creare un equilibrio; necessitano di tecnica, di personalità. I cocktail hanno un carattere, come i personaggi. Il Martini comunque non è un cocktail, è un manifesto esistenziale. È essenziale, elegante, preciso, dotato di un’ironia sottile».
Parliamo della scrittura. Quando ci si dedica?
«Pochissimo. Però se sento l’impulso diventa quasi una necessità. Per urlare l’assurdità della vita, che è crudele e comica al tempo stesso... Da sempre fantastico anche di scrivere un libro che, probabilmente, non pubblicherò mai».
Prende spunto dal mondo ospedaliero?
«L’ospedale è la mia vita. Per cui, lo spunto è inevitabile. Inoltre è un enorme fonte di dolore, ma anche di comicità. Chi fa questo lavoro perde la verginità dell’animo, sostanzialmente da subito. E, dato che devo rimanere sobria, almeno cerco di coglierci l’ironia».
E il teatro da quando la coinvolge?
«È un’esperienza neonata: nel senso che piange, si dibatte, ma vive. È un sogno che covavo da sempre e mi sarebbe piaciuto diventare un’attrice comica. Ma ho cominciato ora, grazie a un laboratorio fantastico di Livorno: tre insegnanti professionisti e un gruppo di sciamannati meravigliosi, con passati improbabili e anime che si riconoscono al volo. Un’umanità strana, tenera e viva, che per due ore a settimana mi risucchia via dal mondo. E a giugno mi esibirò per la prima volta, con una Medea rivisitata. Recitare in pubblico mi terrorizza. Quindi non so bene come andrà. Però ci sarò. Tremante, ma presente».
Come riesce a fare tante cose extra lavoro?
«In realtà gli hobbies mi rubano poco tempo… purtroppo. E comunque non stacco mai davvero: il lavoro è sempre lì, come un rumore di fondo. Scrittura e teatro però mi aiutano a restare centrata, a non perdere l’equilibrio».
I libri della sua vita?
«“Delitto e castigo”, senza dubbio. Quando ero adolescente me lo raccontava la mamma, con una passione che mi faceva brillare gli occhi. Poi l’ho voluto leggere e non ci siamo più lasciati. L’altro libro è “Un uomo” di Oriana Fallaci. Due storie forti, in cui i protagonisti sfidano tutto e tutti per restare fedeli a loro stessi, pagando prezzi altissimi».
Nel suo blog spiega di non considerarsi un’eroina e dice ai pazienti, alludendo alla classe medica: “ Non chiamateci eroi.”
«L’ho scritto ai tempi del Covid e lo pensavo davvero. Facevamo il nostro lavoro, e se ognuno avesse svolto la sua parte, forse avremmo costruito insieme una sanità più forte. Oggi, però, non la penso più così. Oggi, chi lavora nel Servizio sanitario nazionale è, suo malgrado, un eroe. Un eroe stanco, spesso frustrato, ma testardo. Io, per esempio, non mi arrendo mai. Il Servizio sanitario è una creatura bellissima e preziosa. È nostro figlio, padre, madre, fratello, sorella. Ma, a tutti i livelli, siamo incastrati in ingranaggi arrugginiti, in meccanismi perversi che bloccano ogni movimento. Abbiamo motori potentissimi, testate di nuova generazione, macchinari da fantascienza… però manca l’olio. Quella cosa semplice, banale, che fa girare tutto e che se non c’è si resta fermi».
In cosa spera per il futuro?
«Continuo a credere - e non smetterò mai - in una medicina di precisione, che curi la singola persona, ascoltandola. Una medicina che aiuti tutti, senza distinzioni di ceto, di genere, di coordinate geografiche. Perché la malattia non guarda in faccia nessuno».
Primario donna in un mondo di uomini. È complicato?
«Mi trovo bene con gli uomini. Ci scherzo, ci discuto, ci lavoro. Ma non sono pari. E loro lo sanno. Non lo dicono, certo. Nessuno è così ingenuo. Ma si sente. Nel modo in cui la mia opinione deve arrivare due volte, perché la prima non ha fatto abbastanza rumore».
Il profilo
Laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli studi di Pisa, Valentina Batini si è specializzata in nefrologia nell’ateneo pisano, arricchendo il suo percorso formativo con importanti esperienze all'estero: prima in Danimarca e successivamente nel reparto di Nefrologia del King’s College Hospital di Londra. Ha iniziato la sua carriera di dirigente medico nel 2006 nell’Azienda sanitaria locale livornese e nel 2022 è stata nominata direttrice facente funzione della Unità operativa complessa di Nefrologia di Cecina e Piombino dove, sperimentando un nuovo modello organizzativo sui due ospedali e grazie all’ausilio della telemedicina, ha incrementato l'attività ambulatoriale (dialitica e non) ripristinando anche il Servizio di Dialisi Vacanze. «Sono una nefrologa dell’ospedale di Livorno ormai da molti anni, e l’ospedale è diventato anche un po’ casa mia», dice. «Conosco tutti e tutti ormai conoscono me, anche se molti ancora mi chiamano “signorina” e, da poco, nemmeno più signorina ma “signora”, perché il tempo passa per il mio aspetto, ma non per i pregiudizi culturali». La dottoressa Batini adora la medicina, ma anche il teatro e la scrittura che sono i suoi due principali passatempi.
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