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Pelle al vegetale, quel metodo antico che guarda al futuro

di Marco Sabia
Pelle al vegetale, quel metodo antico che guarda al futuro

Leonardo Volpi, presidente del Consorzio dedicato: «Conciare con i tannini è artigianato evoluto»

31 gennaio 2023
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A Ponte a Egola - frazione a vocazione industriale del comune di San Miniato, zona baricentrica fra Pisa e Firenze - dal 1994 esiste il "Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale": raggruppa 20 imprese che continuano a lavorare la pelle coi tannini, cioè senza ausili chimici (se non in minima parte) . Il tannino è un estratto degli alberi, è un conservante naturale oltre che antibatterico, che evita che la pelle possa putrefarsi e quindi marcire; da tempo immemore l’uomo concia la pelle col tannino - la "farina" di questo procedimento millenario - poi la chimica ha fatto passi da gigante e alla concia al vegetale si è aggiunta quella al cromo. Due mondi diversi, che però sono intrecciati in uno stesso territorio dove le grandi griffe della moda internazionale investono e danno commesse e lavoro. L’obiettivo del Consorzio è trasmettere il valore di questo processo da "artigianato evoluto", come lo definisce orgogliosamente il presidente Leonardo Volpi. Dietro a ogni singola pelle - che serva per una borsa, una scarpa o altro - c’è un know-how che per Ponte a Egola (e non solo) è un tesoro da non disperdere. Con la luce e il calore ogni artigiano può rendere unica una pelle. E questo è il vero valore che il Consorzio vuole conservare.

Presidente Volpi, quando e perché nasce il Consorzio?

«Il Consorzio nasce nel 1994 per volontà di alcuni conciatori di pelle al vegetale (la cosiddetta "vacchetta") di unirsi per riuscire a trasmettere sul mercato il valore di questo prodotto e la passione che li animava. Oggi siamo 20 aziende medio piccole: è un gruppo prima di amici e poi di imprenditori concorrenti, con aziende a conduzione familiare. Fino al periodo pre Covid raggruppavamo circa 200 operai (con una media di 10-15 addetti ad azienda) per un fatturato di 165 milioni l’anno».

Cosa significa conciare ancora col tannino?

«La pelle al vegetale si presta bene a un artigianato evoluto più che a un processo industriale su vasta scala. Chi ci cerca lo fa perché richiede precise caratteristiche: innanzitutto un prodotto "vivo" di origine quasi totalmente naturale, durevole nel tempo e che si evolve e che, come ha detto qualcuno, prende il colore della vita. Non esiste una borsa uguale a un’altra, perché anche la semplice esposizione o meno alla luce la rende unica».

Come si coltiva e si tutela questa tradizione?

«In primis investendo in comunicazione e formazione: comunicare al cliente quello che produciamo e come lo facciamo e formare gli addetti del futuro, a partire dalle scuole e anche dalle università, con cui collaboriamo da tanti anni. E poi abbiamo un disciplinare che le nostre aziende si impegnano a rispettare e che alla fine consente al consumatore, tramite un tagliandino unico dotato di QR code, di risalire a quella pelle, a chi l’ha lavorata e come. Si parla di circa un milione di tagliandini all’anno, che certificano grazie al Consorzio tutto il processo produttivo e la qualità della pelle che arriva nelle mani del cliente tramite l’etichetta affissa sulla borsa o sulla scarpa».

Quali, invece, sono i rischi?

«Certo, il nostro è un prodotto che ha un costo alto e che quindi tiene involontariamente lontane certe fasce di mercato. Noi rifuggiamo la filosofia del comprare per il gusto di farlo, preferiamo che la persona acquisti un oggetto che poi la accompagnerà nel suo percorso di vita. Il Consorzio si batte per il comprare meno ma comprare meglio. Per questo è fondamentale investire in cultura, formazione e informazione».

Quanto è importante la sostenibilità del processo?

«Molto, però non va bene usare la parola sostenibilità in maniera superficiale, sbandierarla senza sapere veramente cosa significhi. Intanto noi impieghiamo un materiale che altrimenti andrebbe buttato e già questo la dice lunga. E poi quale acquisto più sostenibile di un prodotto che dura nel tempo? Il nostro distretto è stata la prima zona a dotarsi di impianti di depurazione e a fare vera economia circolare, che però oggi è bloccata da mille cavilli».

Dove vede il Consorzio fra 10 anni?

«Esattamente qui a CasaConcia (sede del consorzio, nda) coi nostri figli e nipoti, a fare quello che facciamo oggi cercando di alimentare la tradizione e i saperi di un territorio che esporta qualità e artigianalità in tutto il mondo».

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