Il Tirreno

Toscana

Scuola2030
Il ricordo

Giorno della memoria, le storie dei nonni e il pellegrinaggio nei campi di concentramento per capire cosa è stato

di Beatrice Turini*
Giorno della memoria, le storie dei nonni e il pellegrinaggio nei campi di concentramento per capire cosa è stato

Tra la folla abbiamo avuto la fortuna di incontrare e conoscere alcuni deportati, vestiti con le loro vecchie divise del campo. L'articolo di una studentessa del Liceo classico XXV Aprile di Pontedera pubblicato nell'ambito del progetto del Tirreno "Scuola 2030"

23 gennaio 2023
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«Iole… Iole… Metti il cappottino al cane e la musaruola al bimbo!». Le storie che mi raccontava mia nonna sulla guerra cominciavano sempre così, con il suo vicino di casa che, nella fretta di ripararsi nel bunker con la famiglia, confondeva cane e figlio. Per mia nonna era come un gioco.

Una volta al riparo, nella silenziosa oscura quiete del rifugio, si sentiva del tutto autorizzata a rompere quella cappa di gelido terrore per, dando pizzicotti a destra e a manca.

«Shh… Fate piano… State zitti. .. AHI! Shh, chi è stato? AHI! ». Un po’ come ne La vita è bella di Roberto Benigni, la guerra trasfigurata in risata.

Mio nonno materno, invece, nato nel 1926, all’epoca faceva gola ai soldati tedeschi che cercavano giovani da mandare nei campi di lavoro: più volte fu costretto alla fuga, andandosi a rifugiare nei boschi Lari, in provincia di Pisa.

La Seconda Guerra mondiale, come il morso di un aspide, ha finito con l’avvelenare l’intera Europa, ha cambiato radicalmente il corso della Storia. La nostra storia, della povera gente mandata a morire.

«Per questo è necessario capire». Ricordo questa frase, ripetuta come un mantra durante il pellegrinaggio ai campi di concentramento di Dachau, Bergen-Belsen, Mauthausen, nel 2019. «È necessario capire, affinché non si ripetano gli stessi errori». Ma capire cosa, esattamente, nello specifico?

Bastò il primo campo, Dachau: era maggio, eppure c’era un freddo, gelido, che ti penetrava fin dentro le ossa.

Ed eravamo ben vestiti.Tutto intorno a noi era immobile, come cristallizzato. La terra scura sembrava aver assorbito tutto il dolore che l’aveva attraversata.

Ci guardavamo intorno, sperduti, immersi in quel grigio oblio che aveva inghiottito tante persone prima del nostro arrivo, prima che potessimo capire.

Il 5 maggio abbiamo concluso il nostro pellegrinaggio a Mauthausen, ma non eravamo i soli a essere lì: tanti altri gruppi, provenienti da tutto il mondo, erano venuti a festeggiare l’anniversario dalla liberazione del campo. Mauthausen era in festa.

Tra la folla, miracolosamente, abbiamo avuto la fortuna di incontrare e conoscere alcuni deportati, vestiti con le loro vecchie divise del campo.

La nostra insegnante ci spinse proprio davanti a uno di loro: un uomo sull’ottantina, il volto, sebbene segnato dalla stanchezza, illuminato da due limpidi occhi azzurri. Ricordava un poco di italiano, probabilmente da vecchie reminiscenze dei suoi compagni lì al campo; e, come i miei nonni, anche lui ha dato la sua versione della storia. Ma rispetto ai loro racconti, che tanto mi affascinavano da bambina, le parole di quell’uomo risuonavano come uno spettro dei suoi ricordi. Nei suoi occhi si affacciava un dolore, sordo, pungente. Ricordare gli faceva male, ma voleva che sapessimo. Voleva che capissimo. 

*Studentessa di 18 anni del Liceo classico XXV Aprile di Pontedera (Pisa)
 

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