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Pd, Nardella media e non si butta. Bonaccini lo chiama: «Vediamoci»

dell’inviato Mario Neri
Pd, Nardella media e non si butta. Bonaccini lo chiama: «Vediamoci»

In un cinema di Roma circa 200 i presenti alla convention, tra cui Lepore, Provenzano, Furfaro e Di Biase. Il sindaco di Firenze sempre più collante: «Basta vendette, serve un Pd del porcellino, una casa di mattoni. Deciderò se candidarmi prima di fare il presepe. Priorità alle idee poi il mio destino».

27 novembre 2022
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ROMA. Mattoncino dopo mattoncino, Dario Nardella dice di voler costruire il “suo” Pd come un “Pd del porcellino”. Il terzo. Non il primo, impaziente, frenetico, pronto a bruciare la casa pur di innalzare veloce la sua leadership di paglia. Non il secondo, imprudente, deciso a fare le cose a mezzo pur di prendersi un pezzo di partito. No, il sindaco fiorentino anche stavolta temporeggia. «Deciderò nei prossimi giorni, il mio destino arriva alla fine, prima le idee», ripete.

«Oh, però quanto tu traccheggi Dario», sbuffa e sorride una signora. S’è alzata presto, ha attraversato mezza città assediata dalla Firenze Marathon, ha preso un treno con le truppe organizzate dal partito fiorentino ed è arrivata al cinema Quattro Fontane, un passo dal Quirinale, convinta che insomma la convention “Idea Pd” si sarebbe finalmente trasformata in una discesa in campo. Niente. Nardella non si lascerà trascinare da questa foga all’accelerazione, da quest’appello continuo a non fare della fase costituente una messa cantata – ché in effetti dopo il 25 settembre pare tanto un corteo funebre – e ad anticipare le primarie, per ora fissate al 19 febbraio. Deciderà. «Prima di fare il presepe decido, dirò se mi candido o se appoggio qualcuno dei candidati», confida ai giornalisti alla fine dandosi come confine temporale l’8 dicembre. Prima, dice, «dobbiamo fare come il porcellino saggio della favola: non una casa di paglia o di legno tipo Ikea, ma solida, di mattoni».

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Ecco, magari non è uno dalle battute fulminanti e sprezzanti, in sala ci sono duecento persone e qualche poltroncina vuota, in prima fila le sedute hanno pure il poggiapiedi, non c’è il pop sparato a mille, relax insomma, questa non è la Leopolda, ma in fondo è l’ultima cosa a cui pensava Nardella: far diventare questo raduno di sindaci, intellettuali, parlamentari, consiglieri regionali e comunali arrivati un po’ da tutta Italia un reload renziano. Certo, si capisce che Nardella sta mediando. Prima di salire sul palco assicura di non essere «la terza via» a Elly Schlein e Stefano Bonaccini, ma di aver lavorato fin «da subito per unire le diverse anime», di voler «aprire le porte a una nuova comunità», per essere il collante di un partito che ancora una volta rischia di trasformare il congresso in una resa dei conti. Perché «si sente, nei corridoi, nelle assemblee, nelle telefonate, è tutto un dire se vince tizio io me ne vado». Il rischio scissione è reale. E allora, Dario il temporeggiatore dice calma e gesso, ma anche lui si fa terminator di caminetti e capibastone come Bonaccini, fautore di questo nuovo Pd in cui ormai pare obbligatorio battezzare ogni leadership sotto il marchio anti-establishment. Serve un Pd neonato (per i fotografi c’è pure lo scatto “Nardella con bebè”, glielo ha messo in braccio una militante). E «basta correnti, vendette, signori delle tessere», altrimenti «in questa casa non ci vorrà entrare nessuno». E se ciò che non serve è una leadership solitaria, c’è bisogno di qualcuno che faccia da adesivo. Così considera un «gesto significativo» quello di Bonaccini, che in serata si dice «assolutamente interessato ai contenuti di “Idea Pd”» e racconta di vedere una «sintonia» col sindaco e di avergli proposto un incontro «per discutere di proposte e competenze».

Prove di accordo? «Si vedrà» dicono dall’entourage nardelliano. Certo, un quasi appello. In molti credono che Nardella potrebbe decidere di non lanciarsi nella scalata. Sa di potersi conquistare un ruolo di primo piano. Nei sondaggi è salito al 15%, e alle Quattro Fontane ha riunito una piccola galassia «eterogenea»: sul palco salgono il sindaco di Bologna Matteo Lepore, l’archistar Massimiliano Fuksas («Sono emozionato e incazzato, la sinistra non parla più di disuguaglianze»), il prof ecologista Stefano Mancuso, in presenza e in remoto si alternano sindaci, consiglieri, deputati. Magari quella nardelliana è una ridotta, ma potrebbe essere cruciale per assegnare la vittoria. Così, sebbene le correnti siano più o meno la peste bubbonica, anche qui zampillano dappertutto: c’è Marco Furfaro, emissario della Schlein, c’è Peppe Provenzano, inviato da Andrea Orlando; nelle prime file si siede pure Michela Di Biase, deputata anche lei vicina alla ex vice governatrice e consorte di Dario Franceschini, l’ex ministro che tifa perché si approdi a un Nard-Elly. Nel monitor compaiono pure Matteo Biffoni («Non credo al partito dei sindaci, ma siamo portatori sani di idee») e Andrea Gnassi, sindaco e deputato di Rimini, entrambi vicini a Nardella ma pure a Bonaccini. E di parlamentari di varia estrazione, spiffero e cespuglio ne spuntano parecchi. Li ha reclutati tutti Federico Gianassi, il fedelissimo appena sbarcato a Montecitorio. «Unità, partito plurale e polifonico» diventano quasi mantra. Michele Emiliano, il governatore pugliese, interviene da casa, rimproverando al Pd di aver «snaturato il fronte progressista», Matteo Ricci di aver «abbandonato il suo popolo e il lavoro». Nardella rilancia con una proposta sulle autonomie. Alessio Pascucci, sindaco civico e “capellone” di Cerveteri, che un po’ fa battute alla Zelig e un po’ il picconatore, grida che s’è rotto del «Pd padronale». Nardella nel discorso di chiusura spara: «Basta con questa legge elettorale, è una degenerazione della politica. Rimettiamo al centro le preferenze, non sono più tollerabili i listini bloccai». Insomma Dario più che leader si fa Vinavil. E terzo porcellino. «Mi piace la metafora – dice Lepore – del maiale non si butta mai via niente».

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