Il Tirreno

Toscana

Via dall’inferno di Kabul, ma sotto ricatto: i racconti dei rifugiati in Toscana

Ilaria Bonuccelli
Nella foto a sinistra il medico fuggito da Kabul con i quattro figli: la più piccola ha tre mesi, a destra il padre rifugiato che abbraccia la sua “principessa” in pizzo azzurro
Nella foto a sinistra il medico fuggito da Kabul con i quattro figli: la più piccola ha tre mesi, a destra il padre rifugiato che abbraccia la sua “principessa” in pizzo azzurro

Temono per la vita dei familiari rimasti: rischiano di essere vittime della vendetta dei talebani. Due testimonianze-simbolo

31 agosto 2021
8 MINUTI DI LETTURA





Negli alberghi sanitari che ospitano i rifugiati dell’Afghanistan ci sono suoni diversi rispetto alla settimana scorsa. Si inizia a sentire qualche risata. Sono bambini che fanno presto ad adattarsi. E a mettere in un angolo l’orrore. Gli adulti no. Gli adulti sono marchiati, da quello che hanno visto. E da quello che si aspettano: hanno fratelli, cugini, genitori sempre intrappolati a Kabul. Temono ritorsioni dei talebani. E ritorsioni è sinonimo di esecuzioni sommarie per chi ha lavorato per la Nato. Ce lo raccontano due sopravvissuti che accettano di parlare con Il Tirreno, a condizione di non renderli riconoscibili. Devono restare invisibili per garantire una possibilità di sopravvivenza ai loro familiari. Li incontriamo dove la Regione li ha accolti. L’assessora regionale alla protezione civile, Monia Monni, ha subito attivato la rete dell’accoglienza. E ha sollecitato il governo a emanare un decreto per riconoscerli come rifugiati politici, stato che nella sostanza hanno già. Ma non nella forma. E stavolta è quella che conta.

Medico di 38 anni: «Siamo stati tirati su dalle acque putride per poter fuggire»

Sua figlia, di tre mesi, è salva. È in Toscana, a Montecatini, con gli altri tre bambini e la moglie. La sua nipotina di due mesi, figlia di suo fratello, no. È ancora in Afghanistan. «Mio fratello non ce l’ha fatta a fuggire. Neppure mio padre. Li sento tutti i giorni. Loro mi rassicurano. Mi dicono che stanno bene, ma io sono la persona che una settimana fa era là, a Kabul: so che cosa succede». Hassan è un nome fittizio. Lo abbiamo scelto per proteggere questo medico ospedaliero di 38 anni, da qualche giorno rifugiato in Toscana. Ma «nella mia testa, in ogni momento, passano le stesse immagini: i talebani che picchiano la gente che cerca di uscire dal Paese».

In poche ore Hassan ha vissuto l’Afghanistan peggiore. Il primo giorno nel quale ha tentato di raggiungere l’aeroporto ha visto morire sei bambini schiacciati dalla folla disperata in corsa verso gli aerei in partenza da Kabul. «Ho visto i talebani picchiare le donne, gli anziani, i bimbi con bastoni, tubi e con i calci dei fucili. Non cercavano di fuggire solo quelli che, come me, hanno lavorato con gli stranieri, ma anche donne e giovani consapevoli di non avere futuro con i talebani».

Da subito – racconta Hassan – i talebani spargono terrore. Chiudono l’accesso principale all’aeroporto, creano posti di blocco prima di arrivare alla fila dove ci sono le truppe straniere che controllano i documenti di chi ha lavorato con le organizzazioni internazionali. La tortura peggiore, però, è un’altra: cercano di disperdere le famiglie. Dividono fratelli, madri e figli «per impedire di lasciare il Paese. Era un altro modo indiretto per punire chi aveva lavorato con gli stranieri. Quando mi sono trovato davanti questa situazione, mi sono sentito perso, senza più speranze. Ho fatto tanti tentativi (anche alle quattro del mattino) ma la folla era sempre enorme e io sempre lontano dalla barriera dove le forze armate alleate parlavano con chi poteva uscire dal Paese». L’unica speranza – racconta Hassan – era trovare un imbarco senza talebani. E in effetti le forze internazionali lo creano. Un passaggio di pochi metri, con una porta stretta. Da una parte c’è un muro, dall’altra un fiumiciattolo. Il problema è che quell’accesso lo scoprono migliaia di persone. «Arrivare a quell’entrata è una sfida. Ho visto donne piangere, persone sentirsi male sotto il sole. Non si poteva aiutare nessuno. Non c’era acqua, non c’era cibo. Sono stato in coda per ore sotto il sole, la mia pelle si è bruciata. Avevo messo la mia famiglia più lontano, al riparo. Così sono riuscito a entrare. Ho chiesto ai militari italiani di aiutarmi a fare passare la mia famiglia dall’uscita, perché da dove ero arrivato io non era possibile».

Hassan, però, non è l’unico separato dai familiari. «Ho detto all’esercito italiano che c’erano altre persone che non erano riuscite ad attraversare la folla per arrivare a mostrare i documenti: una sessantina di persone e di queste almeno dieci sarebbero morte sicuramente per i ruoli occupati. Qualcuno aveva lasciato indietro il padre, qualcuno aveva figli da altre parti, una sorella o fratelli sparsi nella folla. I soldati si sono subito mobilitati e mi hanno rassicurato: «Guardiamo se riusciamo insieme a identificarli e a portarli nel fiume. Li facciamo passare da lì. E da lì li abbiamo tirati su. Anche mia moglie con la bambina di tre mesi è stata tirata su da questo fiumiciattolo di acqua sudicia. Così ci siamo salvati».

Suo fratello e la sua nipotina, invece, non ce l’hanno fatta: «E ora sono in pericolo, lo so. Anche mio fratello è un medico. Ogni momento penso a come poterlo far uscire con la famiglia. Non sono preoccupato per la casa che abbiamo abbandonato. Io sono scappato con una maglietta e un paio di pantaloni, ma non penso mai a quello che abbiamo lasciato. Temo per la vita dei miei cari. Ho paura che inizino a cercarli uno per uno. Hanno cambiato casa e spero che siano salvi». Da qui Hassan può solo tenersi in contatto e controllare a distanza. Ipotizzando un giorno di poter rientrare: «Lo posso pensare solo se non ci sarà più il regime talebano, al quale ci ha sottratto l’Italia che ringrazio. Con tutti i Paesi che danno aiuto a noi rifugiati. Perché questo siamo: rifugiati». 

«La mattina insieme, il pomeriggio giustiziato. E ho progettato la fuga»

La data non importa. Il giorno sì. C’è un giorno in cui Omar (il nome è di fantasia, per non rendere riconoscibile il rifugiato) capisce che deve fuggire. L’Afghanistan non è più un Paese sicuro per chi ha lavorato con gli stranieri. Anche se tutti dicono che c’è un accordo: i talebani comanderanno in 17 province; il governo ufficiale nelle altre 17 e anche a Kabul. Omar ci crede fino al giorno in cui i talebani ammazzano un suo cliente. La mattina colazione insieme in fabbrica, il pomeriggio l’esecuzione in strada.

Sono passate poche settimane e sembra un’altra vita. È un’altra vita, anche se Omar ha appena 36 anni. Il suo inglese accelera. Si fa quasi vorticoso quando parla dei talebani. L’unico segno visibile di tensione. Ora è in salvo, in un albergo di Montecatini, dove aspetta di finire la quarantena, prima della destinazione finale come rifugiato politico. Cerca di non trasmettere le tracce della paura e della rabbia alla “principessa” di quattro anni che si arrampica sul suo braccio. È la più piccola della famiglia, la sesta di sei fratelli, tutti in salvo. E già questo è un privilegio. La bimba la conoscono tutti perché in Italia è arrivata con un bagaglio pesante di morte, scoppi, bombe e due abitini che la possono ancora far sognare: uno rosa di tulle e uno azzurro di pizzo che indossa mentre abbraccia il suo papà, dal quale non si stacca mai. È così da quando è partita dall’Afghanistan.

Lì nel suo Paese, dove suo padre non vuole tornare, la famiglia aveva un emporio e una fabbrica di ricami, che forniva mostrine e merce alla base Nato. «Ma questo abito non glielo ho cucito io», dice Omar con un sorriso. «Lo abbiamo comprato al mercato a Kabul, prima». Prima è l’avverbio che racchiude un’epoca: prima del ritorno dei talebani. «Ci dicevano che c’era un accordo sulla spartizione delle province. Ma giorno dopo giorno abbiamo visto che i talebani prendevano più province. Nessuno li fermava. Io ero confuso. L’esercito afghano aveva i carri armati, gli elicotteri, armi potenti: era molto più equipaggiato dei talebani che avevano solo moto e fucili. Eppure un ragazzo del comando mi ha detto piangendo: “Il presidente non ci consente di combattere”». E così la situazione precipita. Come non ci si può immaginare.

«Nessuno poteva immaginare. Ma abbiamo capito in fretta che i talebani non avrebbero mai risparmiato noi che avevamo lavorato per la Nato e le organizzazioni internazionali. Non ci avrebbero mai lasciati andare». La certezza di Omar non è per sentito dire questa volta: «Ho perso un cliente che lavorava per la base americana. Ogni giorno veniva al mio negozio a ritirare la merce e la portava alla base. Una mattina mi chiama e mi chiede di andare presto in fabbrica: “Facciamo colazione insieme” mi dice. Ritira la merce e poi parte. Nel pomeriggio sento che lo hanno preso i talebani, nella provincia di Lowgar, dove c’è un’altra base americana. A metà percorso trovano la strada bloccata. L’autista avverte che devono cambiare percorso e passare dentro un villaggio. Tutti d’accordo, cambiano strada e si imbattono in un posto di blocco. I talebani fermano l’auto, la perquisiscono, trovano cerotti, lo tirano fuori dalla macchina e lo ammazzano sul posto. Un colpo alla tempia e uno allo stomaco. Nel pomeriggio telefonano alla famiglia: oltre ai genitori, aveva una moglie e due figlie. Dicono: “Vostro figlio è con noi. Non c’è bisogno di andare a cercare in altri posti. Stiamo facendo quello che c’è da fare in base alle nostre regole”». Giustiziarlo senza processo. Alla famiglia non è rimasto che andare a raccogliere il corpo abbandonato.

Un avvertimento più chiaro per Omar che si rivolge ai militari italiani per sapere come uscire dal Paese. Inizia la trafila. Code all’aeroporto di Kabul, documenti. «Ho aspettato tre notti, dormendo appena due ore per riuscire a passare il gate. Ma ho due fratelli che lavoravano con me alla base Nato – ammette Omar – che non sono riusciti a scappare. E ora le frontiere sono chiuse. Li sento ogni giorno e ogni giorno dico loro di cambiare posto dove stanno, di tenere a portata di mano i documenti che dimostrano che hanno lavorato con la Nato e di provare a fuggire. In ogni momento, li possono riconoscere. E uccidere». 

RIPRODUZIONE RISERVATA

Primo piano
La tragedia: la ricostruzione

Rogo al poligono di Galceti, le vittime hanno provato a domare le fiamme con l’estintore: chi sono, cos’è successo e le testimonianze

di Paolo Nencioni