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La strage di Viareggio

Strage di Viareggio, Marco Piagentini: «Caro figlio mio, ti spiego perché andiamo avanti»

Donatella Francesconi
Marco Piagentini (a destra) nella conferenza stampa di ieri (foto Ciurca)
Marco Piagentini (a destra) nella conferenza stampa di ieri (foto Ciurca)

Il giorno del disastro Leonardo aveva solo otto anni. I suoi fratellini, Luca e Lorenzo, avevano rispettivamente 5 anni e 17 mesi: per loro non c’è stato speranza, così come per la mamma. La lettera del padre dopo la sentenza in Cassazione

10 gennaio 2021
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VIAREGGIO. Quel braccio di bambino che si leva dalla macerie della casa in cui si era addormentato sognando la giornata al mare con i fratellini, al risveglio, è una delle immagini simbolo del disastro ferroviario di Viareggio, 32 vittime. Undici anni e mezzo fa Leonardo Piagentini aveva solo otto anni. I suoi fratellini, Luca e Lorenzo, avevano rispettivamente 5 anni e 17 mesi. Per loro non c’è stato speranza. Così come per Stefania Maccioni, 40 anni, la loro madre. Leonardo e suo padre, Marco Piagentini, si sono salvati dall’inferno di esplosioni, fuoco, fumo, macerie. Nei giardinetti di via Porta Pietrasanta, quelli davanti alla casa dei piccoli Piagentini, quella maledetta notte il loro nonno, Roberto Piagentini, ripeteva, deciso: «Ditemi che sono morti. Ditemi la verità». Quella verità che Marco, Roberto e tutti gli altri familiari delle 32 vittime hanno cercato senza sosta per oltre undici anni. Fino ad arrivare alla sentenza di Cassazione, 8 gennaio 2021, «una giornata triste e buia per la giustizia di questo Paese», come dichiarano gli stessi familiari delle vittime.

Omicidio colposo prescritto, aggravante dell’incidente sul lavoro venuta meno, pene da rideterminare in un nuovo processo d’appello, profili di colpa da ridefinire in un ulteriore secondo grado di giudizio. Ce n’è abbastanza per far pensare a quel bambino estratto vivo dal buio dell’inferno, oggi universitario ai primi passi, che «in questo Paese chi sbaglia non paga per gli errori». Così papà Marco si è arrotolato le maniche della camicia, ha preso una sedia, e dopo una giornata che lo ha riprecipitato di botto in quella notte maledetta, si è fatto – come racconta lui stesso – «una chiacchierata» con suo figlio Leonardo, l’unico che gli è rimasto. E che oggi pensa, ed è difficile dargli torto, che «tanto non si faranno un giorno di galera», come racconta suo padre, presidente della associazione “Il Mondo che vorrei”, nata per riunire i familiari della strage di Viareggio. «Gli ho spiegato tutto», sono ancora le parole di Piagentini padre: «Poi deve decidere lui quale strada scegliere, quando ha tutto gli elementi che gli servono».

Papà Marco ha parlato, raccontato, spiegato: «Gli ho risposto che è vero quanto afferma lui, ma è anche vero che quando si riconosce una colpa non possiamo chiaramente mettere noi le persone in galera, non sarebbe neanche giusto. Inoltre, gli ho anche detto che prima di tutto viene la responsabilità morale, poi quella civile e poi quella della legge. Qua noi cercavamo giustizia e abbiamo trovato la legge».

Ma – Piagentini lo ripete da due giorni, ormai – «noi andiamo avanti». Con la forza del dolore che non si placa. «Avrei voluto chiudere questa vicenda», racconta al Tirreno: «E invece la mia vita non può ricominciare. Sono sospeso». Inchiodato, come gli altri familiari, a quella data segnata sul calendario con il rosso del fuoco e del sangue. «Non è questo che avevo pensato dalla vita. Non è quello che volevo costruire», dice Marco, padre e uomo di famiglia, quasi parlando con se stesso. Marco che da sempre ha uno scopo, nell’attraversare lo strazio che si rinnova udienza dopo udienza: «Alla fine nessuno potrà dire che qualcuno ha giudicato “perché Viareggio è Viareggio”, o “perché i familiari”. Come ebbe a dire l’avvocato Armando D’Apote, difensore di Mauro Moretti, che definì l’esito del processo di primo grado “sentenza populista”».

Adesso si ricomincia. «Abbiamo osato combattere il potere e il potere ci ha bastonato. Ma noi ci siamo già rialzati», sono le parole di Daniela Rombi, vice presidente dell’associazione “Il Mondo che vorrei” che nella strage di Viareggio ha perso la figlia, Emanuele Menichetti, 21 anni, quaranta giorni di agonia: «Viareggio (e non solo) è in piedi insieme con noi, a testa alta. Ci saremo fino in fondo». Nei palazzi delle Istituzioni, per chiedere sicurezza nelle ferrovie e nei trasporti e più severità nei confronti dei manager che sbagliano. «È prioritario – concludono i familiari – armonizzare le norme del decreto 81/08 sulla sicurezza sul lavoro, anche per le Ferrovie. Perciò chiediamo a enti e amministratori che non si limitino alle parole ma ci sostengano».

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