Super batterio New Delhi: 64 gli infetti, 17 le morti sospette. La Regione: ci aspettiamo il 40% di mortalità
Secondo le statistiche l’infezione causerà fino a 25 decessi, la maggior parte già avvenuti. E ora partono i controlli sulle cartelle cliniche
Un super batterio, il New Delhi. Un numero certo, 64: i casi di infezione registrati negli ospedali della Toscana da novembre 2018 a oggi, quasi tutti nell’area nord ovest. Una nebulosa, invece, sulla letalità del contagio. Solo una fredda percentuale di mortalità attesa: 40%, 25 decessi. Perché autorità sanitarie e Regione dicono di conoscere le cifre dei ricoverati e dei pazienti risultati positivi, quelli di chi ha contratto la malattia, assicurano di aver attivato una «unità di crisi» a maggio, prima ancora di emanare il decreto dirigenziale del 26 luglio con cui il sistema sanitario regionale dettava le linee guida ai reparti a rischio per gestire un’emergenza che il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) ha messo nero su bianco il 4 giugno, «ma non possiamo dire quanti siano i morti legati al super batterio, non può essere stabilita una correlazione immediata fra infezioni e decessi», dicono a ripetizione i vertici della sanità toscana, dall’assessore regionale Stefania Saccardi al direttore del dipartimento sanità in Regione Carlo Tomassini fino alla dirigente dei servizi Maria Teresa Mechi a Danilo Tacconi, direttore della Malattie infettive ad Arezzo e capo della task force messa in piedi per fermare il New Delhi.
«Nessun allarme, i numeri sono sotto controllo», garantiscono in una conferenza stampa convocata a Palazzo Strozzi Sacrati dopo giorni di tam tam mediatico. Eppure una fonte sanitaria qualificata contattata dal Tirreno conferma: sarebbero 17 le vittime del germe killer. Molte concentrate sull’area di Pisa. Anche la Regione, nel primo pomeriggio di oggi, sabato 7 settembre, è costretta a chiarire: si tratta di 17 casi accertati, ma non è ancora provato il nesso di causalità. Inoltre, i decessi sono calcolati solo su 44 infetti registrati fino a maggio, di cui le autorità regionali hanno ricevuto la notifica di morte dagli ospedali, e fanno corrispondere il tasso di mortalità a quello atteso: il 40%. Ma potrebbero aumentare, perché non tutti gli altri 20 infetti registrati fino a luglio sono ancora in vita. Manca però alla Regione la notifica della morte. Un contagio contro cui il servizio sanitario sta ingaggiando una battaglia. Il microorganismo è uno dei super batteri capaci di resistere agli antibiotici, anche di secondo livello, e tiene col fiato sospeso medici e sanitari da Pisa a Massa, da Lucca a Livorno. Uno spicchio di regione diventato da novembre 2018 un focolaio anomalo, «senza precedenti», ha certificato l’Ecdc in un report che parla di «caso Toscana». Ecco le risposte fornite ai giornalisti dagli esperti e dai vertici dell'assessorato regionale alla salute.
Quanto si è diffuso in Toscana e dove?
Sono 546 le persone finora risultate positive al batterio, i portatori, o meglio, colonizzati. Di questi, 64 i casi di infezione nel sangue, 59 dei quali riscontrati nella Toscana nord ovest. Ma attenzione, la distribuzione (vedi grafica) è determinata da due fattori: grandezza e complessità delle cure fornite dagli ospedali. È normale che Pisa ne registri di più, molti pazienti sono arrivati lì da altri presidi nella speranza di salvarsi. Pensiamo che il paziente zero sia uno straniero, ricoverato a Pisa nel centro grandi ustionati. Precisiamo: non un migrante.
Perché la Regione ha attivato linee guida solo a fine luglio e perché ne dà conto solo ora all’opinione pubblica?
L’Unità di crisi era attiva già a maggio. E le prime avvisaglie di un’anomalia si sono avute a marzo, quando si è registrato un picco di 11 infetti nell’Asl Nord ovest. Da lì si è proceduto a ritroso, chiedendo informazioni agli ospedali, scoprendo che il trend era iniziato a novembre. Ma i numeri non rappresentano un allarme. Le cifre relative ai colonizzati sono alte perché abbiamo esteso lo screening abituale a nuovi reparti giudicati a rischio proprio per aumentare la sorveglianza e capire. Prima il tampone rettale si faceva nelle terapie intensive e cardiochirurgie, ora anche nelle medicine. Ma non è un’infezione ospedaliera diversa da quella che siamo abituati a gestire, come la Klebsiella Kpc (batterio antibiotico resistente che causa polmoniti ospedaliere, infezioni delle vie urinarie ndr).
Da dove arriva, come e perché si diffonde?
L’enzima New Delhi metallo beta lactamase (Ndm) è stato isolato per la prima volta in un turista svedese rientrato dell’India. È molto resistente agli antibiotici di secondo livello: perciò è definito batterio killer. La mortalità (che ci attendiamo) varia dal 40 al 45%. Esserne portatori non significa ammalarsi, c’è chi può trasportarlo nell’intestino per tutta la vita. Il contagio però può avvenire per contatto, spesso colpisce pazienti debilitati, immunodepressi con storia recente di ricovero in ospedale o in Rsa. Le cause? È un batterio fecale, l’inosservanza di buone pratiche di igiene da parte di infermieri o operatori può essere una causa. Ad esempio non lavarsi le mani nel passaggio da un paziente all’altro. Ma anche i parenti o i pazienti possono fare da veicolo. Perciò abbiamo rinnovato alcune linee guida e chiesto che i pazienti con sintomi sospetti siano isolati e sottoposti a misure di prevenzione stringenti.
Quanti sono i decessi riscontrati fino ad oggi?
Non siamo in grado di dare un numero (in realtà oggi, 7 settembre, la Regione ha confermato di aver registrato 17 morti sospette). Non c’è una correlazione immediata fra decesso e infezione. Alcuni dei 64 (67, secondo i dati aggiornati, ndr) infetti registrati finora sono morti, ma non possiamo dire con certezza quali a causa del batterio. Ci attendiamo un dato in linea con la letteratura, che fissa la mortalità per il New Delhi fra il 40 e il 45%. Solo dopo aver raccolto un adeguato numero di casi, per ora basso, avvieremo uno studio epidemiologico, con verifica sulle cartelle cliniche, e cercheremo di fissare i casi di correlazione.
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