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Il poeta di un gol che non c’è più: «Oggi la tattica uccide la fantasia»

di Luca Tronchetti
Il poeta di un gol che non c’è più: «Oggi la tattica uccide la fantasia»

I 75 anni di Claudio Sala. «All’Inter dicevano che ero innamorato del pallone». Andrà via e sarà la sua fortuna: il Napoli e poi il Torino dove diventa un simbolo

08 settembre 2022
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I suoi dribbling avevano la forza di una rima incrociata, la sua tecnica sopraffina e il suo palleggio incantavano le folle, la capacità di usare il destro, suo piede naturale, così come il sinistro sprigionava magia allo stato puro facendo innamorare i tifosi al pari delle mirabolanti parabole che era capace di disegnare. C’era la fantasia al potere quando in campo scendeva Claudio Sala, il poeta del gol, autentico cuore granata con 286 presenze e 25 reti (11 stagioni, quarto calciatore di ogni epoca con la maglia del Torino) che infiammava la curva Maratona e negli anni Settanta pennellava cross tesi e perfetti simili a quartine di celebri versi di Gozzano o Pavese, guarda caso scrittori piemontesi malinconici e crepuscolari come quel calcio dal sapore antico con le maglie infeltrite e i numeri dall’uno all’undici. Oggi il capitano-trascinatore compie 75 anni e li festeggia in una cena al ristorante con i suoi due figli, entrambi sfegatati supporter del Toro: «Gianluca lavora alla sede della Confcommercio, Giammarco, ex mancato portiere, è riuscito a conquistare il feudo bianconero degli Agnelli: è direttore commerciale della Fondazione Piemontese Onlus per la ricerca sul cancro di Candiolo voluta e creata da donna Allegra Caracciolo». Si fatica a comprendere cosa avrebbe fatto la bandiera granata se non fosse diventato un calciatore famoso capace di vincere uno scudetto con il Torino 27 anni dopo la tragedia di Superga: «Mia madre mi consentì di giocare a una condizione: il classico pezzo di carta. Diplomato all’istituto tecnico commerciale senza il calcio sarei diventato uno dei tanti anonimi ragionier Sala che affollano gli uffici pubblici e privati d’Italia. Una specie di Fantozzi seduto a una scrivania con accanto la calcolatrice anziché il pallone. In quei panni non avrei resistito mezza giornata». La domanda sorge spontanea: ma oggi esiste ancora uno come Claudio Sala?: «Una settimana fa l’amico Novellino mi ha detto che nel Napoli gioca un georgiano, tale Kvaratskhelia, che si muove e tocca il pallone come facevo io 50 anni fa. Me lo sono visto in tv: effettivamente sul piano stilistico ha uno spiccato talento naturale nel saltare l’uomo con finte e contro finte usando entrambi i piedi. Potrà fare una grande carriera e, per sua fortuna, non troverà sulla sua strada gli scarpini di arcigni marcatori come furono per me Furino e Gentile».

Dall’oratorio all’Inter

Claudio è l’unico figlio maschio di Carlo e Raffaella titolari della drogheria di Macherio, paese di 4mila anime a metà strada tra Monza e Carate Brianza. Il babbo è un grande tifoso dell’Inter e la domenica lo porta allo stadio: «I primi rudimenti li ho imparati dai preti, all’Oratorio di Macherio. Sette contro sette in un campo stretto senza un filo d’erba. Polvere e fango al variare delle stagioni. E’ lì che ho appreso l’arte del dribbling: destro, sinistro, scatto. Sognavo di diventare un bravo giocatore come i miei idoli in maglia nerazzurra: Suarez e Corso. Volevo indossare la maglia numero 10, quella dei campioni e dei fuoriclasse capaci di accendere la fantasia dei tifosi. E logicamente giocare nell’Inter». Quel bimbo con il pallone ci sa fare e il destino vuole che l’orgoglioso babbo legga sul giornale che la Beneamata sta organizzando a Rogoredo, 26 chilometri da casa, un provino per la leva calcistica 1947-48. «Non avevo ancora 14 anni e mi sono presentato al campo. Eravamo un centinaio e io, senza referenze, mi sono imbucato con altri coetanei. A fine partita l’emissario di Peppino Meazza, responsabile del vivaio, mi scelse con babbo Carlo felice come non l’avevo mai visto». Ma i sogni spesso muoiono all’alba. Claudio Sala all’Inter ci resta soltanto una stagione. «Troppo innamorato della palla» dicono in sede. E sbagliano.

Da Monza a Napoli

La delusione è cocente, ma l’adolescente Claudio è amico di Virginio Canzi, attaccante del settore giovanile del Monza in B. «L’Inter mi ha lasciato libero posso venire ad allenarmi con voi?». Gli fanno un provino che dura un quarto d’ora. Poi Della Rosa, osservatore brianzolo, lo interrompe: «Basta così, non vorrei che in tribuna ci fosse qualche spia. Firmi subito e giochi con noi». A 17 anni e mezzo il debutto in B: «Mi fece esordire Ettore Puricelli, da quel giorno non sono più uscito». Tre stagioni in Brianza con Gigi Radice che alla sua prima volta da allenatore gli consegna la fascia di capitano: «Pretendeva tanto, ci martellava in allenamento e anche in privato. Ma con i suoi metodi i risultati arrivavano». Sala finisce in A, al Napoli di Achille Lauro. «Una supersquadra con campioni del calibro di Altafini, Juliano, Canè e soprattutto Sivori. Giocai 23 partite su 30 e segnai il mio primo e forse il più bel gol in serie A il 20 aprile 1969 a Varese con finta, controfinta, sterzata che mise in ginocchio il mio marcatore e conclusione imparabile. Mister Chiappella stravedeva per me, El Cabezon era prodigo di consigli e complimenti. Sarei rimasto a lungo se l’armatore napoletano indebitato non avesse ceduto il club a Ferlaino che per far cassa accettò i 470milioni in contanti sborsati dal Torino di Pianelli. Una bella plusvalenza».

Claudio “Banana” Sala

Per i compagni Sala era il Capitano e nello spogliatoio per tutti era “Banana”. Un soprannome che lascia poco spazio alla fantasia e non derivava certo dal tipo di pettinatura che gli faceva la madre quando era piccolo. Emblema del Toro per classe ed eleganza fuori dal rettangolo verde era serio e pacato, ma in partita si trasformava. Vedeva l’avversario come un nemico, specie se indossava la maglia bianconera. Una trance agonistica che si placava come d’incanto dopo il novantesimo e che era iniziata l’anno successivo alla conquista del primo trofeo con il Torino (la Coppa Italia 1970-71 con il Milan battuto ai rigori in un duello Maddé-Rivera che aveva visto soccombere proprio l’Abatino), con il cosiddetto “tremendismo granata”. “Un neologismo inventato per il Torino 1971-72 guidato da Gustavo Giagnoni. Con mister Colbacco in panchina rimanemmo in testa alla classifica davanti alla Juventus, per la prima volta dopo Superga, sino alla sfida con il Milan a San Siro quando ci venne annullato un gol e perdemmo il tricolore. Quella era una squadra operaia che non si dava mai per vinta. Fu l’anticamera al Torino di Radice che vinse lo scudetto nel 1976”. La fantasia spostata di lato. Per anni Sala venne proclamato come miglior calciatore della serie vincendo per due volte il premio Guerin d’Oro e la sua fedeltà alla causa granata venne ripagata dal mitico scudetto del 1976, l’ultimo nella storia del club. Il cruccio più grande, oltre al tricolore perduto l’anno dopo nonostante i 50 punti conquistati sul campo e a poco spazio in azzurro chiuso prima da Mazzola e Rivera e poi da Causio, la decisione di Radice di cambiargli numero e ruolo: dal 10 al 7, da mezz’ala a esterno: «Sento ancora le sue parole riecheggiare nelle mie orecchie: d’ora in poi giocherai sulla fascia laterale facendo le stesse cose che facevi là in mezzo e sposterò Zaccarelli in quella posizione. All’epoca non esistevano i numeri personalizzati così fui costretto a dire addio alla mitica 10».

Da Bearzot a Simoni

Con il Vecio fu un rapporto difficile: «In Argentina c’erano due blocchi: quello bianconero e quello granata. Ma il mister prediligeva quello della Juventus e giocava Causio. Non gli ho mai perdonato di non avermi fatto debuttare ai mondiali nell’ultima partita del girone di qualificazione quando, già ammessi alla seconda fase, contro i padroni di casa non applicò il turnover come ci aveva fatto intendere». Due anni dopo il Torino prende D’Amico dalla Lazio e scarica il suo leader maximo: «Temevano potessi fargli ombra e invece avrei accettato di fargli da chioccia pur di chiudere la carriera in granata. Mi volle Simoni al Genoa che era caduta in B e che contribuì a riportare subito in A. Ricordo con grande affetto il mister gentiluomo che, quando mi sostituiva o mi lasciava all’inizio in panchina, era solito ripetermi: “Claudio, ti voglio preservare”. Grazie a lui sono tornato a giocare in A a 34 anni». Il calcio di oggi non gli piace: «La tattica esasperata ha ucciso la fantasia e a volte mi addormento nel vedere certe partite. L’allenatore? Ho fatto il tecnico a livello giovanile per 20 anni lanciando un certo Luca Marchegiani e impedendo al club granata di cedere un ragazzino che poi ha fatto una discreta carriera come Federico Balzaretti. Il calcio mi ha dato tanto e io credo di aver restituito tutto con gli interessi».

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