Il Tirreno

Prato

Penitenziario colabrodo

La Dogaia è una “piazza di spaccio chiusa”: il carcere di Prato dove le mafie dettano legge e lo Stato fatica ad entrare

di Mario Neri
La Dogaia è una “piazza di spaccio chiusa”: il carcere di Prato dove le mafie dettano legge e lo Stato fatica ad entrare

Il maxi controllo all’alba – 800 agenti per perquisire 564 detenuti – è solo la superficie di un sistema radicato: un’economia interna gestita da clan di Camorra, ’ndrangheta, mafia cinese e albanese, rifornita da droni, permessanti e telefoni fantasma. La procura mappa un modello criminale autonomo e chiede misure drastiche per spezzare un carcere che funziona come un mercato clandestino autosufficiente

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PRATO Sembra l’inizio di un’operazione speciale in territorio ostile: il cortile illuminato a flash, le luci blu che rimbalzano sul cemento, una colonna di agenti e militari portati con i bus e le camionette in assetto antisommossa avanza sotto i faretti del penitenziario, caschi con le visiere calate sul volto, scudi al petto. Il cancello che si apre, il passo compatto che rimbomba nei corridoi, le unità cinofile, gli uomini che salgono dalle scalette della decima sezione, frugano e setacciano tutto.

Alle quattro del mattino la Dogaia è già sveglia. I cancelli sbattono, le luci dei corridoi restano accese: ottocento uomini in divisa - polizia, carabinieri, finanza - entrano insieme in un carcere che lo Stato prova per l’ennesima volta a riprendersi. Porta per porta, branda per branda, tasca per tasca: perquisiti 564 detenuti, praticamente tutti quelli rinchiusi a Prato.

È il nuovo maxi blitz ordinato dalla procura, l’operazione più massiccia mai vista alla Dogaia. Nel mirino c’è sempre lo stesso buco nero: droga e cellulari che entrano e circolano come se le mura di cinta fossero di cartone, un «fenomeno criminale pulviscolare», lo chiama il procuratore Luca Tescaroli. Minuscoli frammenti di illegalità che, messi uno accanto all’altro, fanno di questo penitenziario un colabrodo.

Stavolta i numeri sono da operazione militare: celle e cameroni passati al setaccio, aree comuni, corridoi, cortili, sei fosse biologiche ispezionate con i mezzi anti-spurgo alla ricerca di telefoni gettati nel water all’ultimo secondo. Il bilancio parla di dosi di stupefacente di vario tipo, quattordici lame artigianali, cinque punteruoli, un cutter, un cacciavite, uno smartphone senza sim e due smartwatch con sim, oltre a stucco, calce e vernice usati per murare i nascondigli, un po’ di contante sparso qua e là.

Dietro queste briciole, però, c’è molto di più. L’indagine ricostruisce un’economia parallela che usa la Dogaia come piazza di spaccio chiusa, dove le regole sono decise dai detenuti più forti. Ventinove indagati, di sette diverse nazionalità, devono rispondere - a vario titolo - di estorsione, violenza privata, traffico di droga, accesso indebiti a dispositivi di comunicazione e porto d’armi improvvisate. Sei altri detenuti, quelli che subivano botte e minacce, hanno trovato il coraggio di raccontare come funziona. Di opporsi al "sistema Dogaia", dove imperversano carcerati eccellenti, dove a comandare sono i boss detenuti di Camorra, ’ndrangheta, della mafia cinese e albanese. La mappa della procura parte dall’ottava sezione di media sicurezza. Qui due quarantenni, un domenicano e un tunisino, gestivano un pezzo di mercato: cocaina e hashish da rivendere dietro le sbarre. Per rifornirsi usavano i "permessanti", i detenuti autorizzati a uscire per qualche giorno. Chi non voleva farsi trasformare in corriere veniva pestato. L’8 aprile un uomo viene chiuso in cella, colpito con calci e pugni al volto, "questa è solo l’anteprima, al rientro porti la roba o ti va peggio". Il 16 maggio un altro detenuto viene ferito con un punteruolo all’avambraccio e all’inguine per lo stesso motivo. Alla fine, entrambi accettano di ingoiare ovuli di droga e riportarli in carcere, fino agli arresti di fine ottobre: uno rientra con oltre 100 grammi di cannabis e quasi 90 di cocaina, l’altro con un carico simile, tra stomaco e ampolla rettale.

Più in là, sesta sezione, la scena è ancora diversa. Tre detenuti in cella 147 hanno trasformato la finestra senza rete di protezione in un porto d’attracco. Dal cielo arriva un drone con una lenza lunga venti metri: plichi legati in cima, dentro hashish, smartphone, coltelli e tirapugni. Dall’esterno qualcuno manovra il joystick, dall’interno i tre tirano su il filo e svuotano il carico. Poi rivendono lo stupefacente in mezza Dogaia, appoggiandosi ad altri tre compagni incaricati di tenere la merce nascosta. Chi non paga viene messo sotto: a un cliente viene chiesto un extra di mille euro rispetto al prezzo pattuito per un pacchetto di cocaina.

I prezzi, dentro, sono fuori scala. Secondo il racconto di uno dei collaboranti, 0,7 grammi di cocaina possono arrivare a costare 500 euro, versati su carte ricaricabili intestate a prestanome vicini ai detenuti. L’azzardo del viaggio - che sia un drone nella notte o un ovulo nello stomaco - si paga caro.A completare la filiera ci sono i semiliberi, i permessanti che entrano e escono quasi senza controlli sanitari, e i familiari ai colloqui, con ovuli nascosti nelle parti intime o bustine infilate nei pacchi di cibo e vestiti. Senza dimenticare la casa di accoglienza Jacques Fesch in via Pistoiese, proprietà della Caritas, già finita al centro di un’operazione nei mesi scorsi: magazzino e base di smistamento per alcuni di questi flussi.Sul fronte dei telefoni la situazione non è migliore. Dal luglio 2024 a oggi sono stati sequestrati decine di cellulari, router e smartwatch, ma la lista degli apparecchi fantasma è ancora lunga: la Procura ha contato 17 Imei e 21 utenze riconducibili ai detenuti di Alta e Media sicurezza di cui non si è ancora trovato il terminale. Qualcuno, dalle celle, continua persino a gestire il proprio profilo TikTok, a postare foto e video del carcere come fosse una stanza d’albergo.

La differenza, rispetto al blitz del 28 giugno, sta anche in un altro dettaglio: questa volta tra gli indagati non ci sono agenti di polizia penitenziaria. A inizio estate erano emerse ipotesi di corruzione per quattro agenti e "anomali contatti" con addetti alle pulizie. Oggi nei decreti compaiono solo detenuti. «Le responsabilità del personale - è la linea ufficiale - saranno eventualmente valutate in separata sede». Ma il sospetto di connivenze, nelle carte, è esplicitamente evocato.

Tescaroli, intanto, mette nero su bianco una lista di interventi che definire urgenti è poco: reti anti-lancio su tutte le finestre, sistemi antidrone e di schermatura per impedire ai cellulari di agganciare la rete, telecamere h24 nei cortili, controlli radiologici obbligatori per chi rientra da permessi o semilibertà. E un presidio di vigilanza armata capace di reagire ai droni che sorvolano il perimetro.È la fotografia di un carcere dove le mura non bastano più, un luogo in cui lo Stato entra ogni tanto in forze - ottocento uomini alle prime luci dell’alba - per cercare di rimettere ordine. Ma dove, appena si spengono le sirene e i blindati tornano in caserma, la domanda resta la stessa: chi comanda davvero alla Dogaia?

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