Clan familiari, faide armate e metodo mafioso: maxi operazione in 24 province contro la criminalità cinese: arresti anche a Prato e Firenze
Il blitz della polizia di Stato svela la struttura dei gruppi criminali cinesi. Al centro dell’inchiesta toscana la “guerra delle grucce”. Nel mirino anche l’hawala, il sistema bancario clandestino che sposta milioni di euro da un continente all’altro sfuggendo a ogni controllo
PRATO. Si muovono nell’ombra, organizzati in clan familiari che provengono dalla stessa provincia o città della Repubblica Popolare, come se nel Dragone esistesse una Corleone cinese. Hanno codici di fedeltà ferrei, regole non scritte fondate sull’omertà, e risolvono le contese con le armi da fuoco, spesso senza temere di ricorrere all’omicidio. È questa la fotografia della nuova criminalità cinese in Italia, che non solo traffica droga, gestisce la prostituzione e controlla l’immigrazione clandestina, ma ha assunto connotati tipicamente mafiosi. Una mafia silenziosa, che non spara sempre, ma che quando serve non esita a farlo.
Ne è convinta anche la procura di Prato, che da mesi indaga su quella che è stata ribattezzata la “guerra delle grucce” o “guerra della logistica”: una faida per il controllo del trasporto delle merci nel distretto tessile che ha già provocato omicidi, tentati omicidi e ferimenti gravissimi. Una faida interna alle “famiglie” cinesi che, proprio come Cosa Nostra, nascono da vincoli di sangue e provenienza geografica, gestiscono i traffici in maniera spietata e non esitano a colpire per difendere affari e reputazione.
È in questo contesto che si inserisce la maxi-operazione della Polizia di Stato, conclusa nei giorni scorsi, che ha toccato 24 province italiane – tra cui Firenze e Prato, i due epicentri toscani della criminalità di matrice cinese. Coordinata dal Servizio centrale operativo (Sco), l’inchiesta ha portato a 13 arresti, 31 denunce, al sequestro di oltre mezzo chilo di shaboo – la metanfetamina prediletta dalle piazze orientali – e a controlli capillari su centinaia di attività commerciali.
Dietro i numeri, però, c’è un fenomeno criminale che da anni preoccupa gli investigatori: la formazione di gruppi compatti, spesso legati dallo stesso paese d’origine, che agiscono come autentiche cosche, con un’“ala armata” incaricata di intimidire, punire e – se necessario – uccidere. L’indagine ha confermato che questi clan gestiscono il racket della prostituzione, il traffico di droga e lo sfruttamento dei connazionali nelle fabbriche e nei laboratori del tessile. Ma non solo: controllano anche il trasferimento illecito di denaro attraverso l’hawala, il sistema bancario clandestino che permette di spostare milioni da un continente all’altro sfuggendo a ogni tracciabilità.
In Toscana, e in particolare a Prato, questa criminalità ha trovato terreno fertile grazie alla straordinaria concentrazione di imprese e attività commerciali cinesi. È qui che la procura sta contestando per la prima volta il metodo mafioso ai clan cinesi, convinta che non si tratti più soltanto di “piccoli trafficanti” o “imprenditori senza scrupoli”, ma di un’autentica mafia capace di imporsi con la violenza e di organizzare omicidi per difendere il predominio.
A Firenze, la Questura ha condotto controlli tra il 28 luglio e il 1° agosto in 24 esercizi commerciali – dai centri massaggi ai bar, dalle sale slot ai negozi multietnici – identificando oltre 300 persone e contestando violazioni amministrative e casi di soggiorno irregolare. Ma è soprattutto a Prato che le forze dell’ordine hanno intensificato le verifiche: 305 esercizi commerciali passati al setaccio, sequestri e identificazioni in massa per cercare di scardinare un sistema consolidato che prospera grazie al silenzio di chi lavora e vive all’interno della comunità.
Le carte dell’inchiesta raccontano di spedizioni punitive ordinate per vendicare un torto, di clan rivali pronti a sparare per un carico di merce o per l’acquisizione di una commessa. In alcuni casi, le vittime stesse restano in silenzio per paura o per rispetto di un codice che non ammette la collaborazione con le autorità. È questa la forza e, insieme, la vulnerabilità della mafia cinese: un’organizzazione chiusa, impermeabile all’esterno, che però vive di tensioni interne che possono degenerare in violenza estrema.
Secondo gli investigatori, il cuore dei clan che operano in Italia batte sempre in una stessa area della Cina, una “Corleone del Dragone” che sforna capi e soldati legati da vincoli familiari. E come Cosa Nostra, queste “famiglie” si dividono il territorio, si alleano o si scontrano per il controllo delle attività illecite.
L’operazione del Servizio centrale operativo si inserisce in una strategia più ampia, partita già dal 2023, per colpire i clan cinesi su più fronti: non solo repressione dei reati più gravi, ma anche controlli serrati sui flussi di denaro, sulle attività economiche e sulla manodopera sfruttata nei laboratori. Un lavoro complesso, reso ancora più difficile dall’omertà interna e dall’uso di strumenti sofisticati come l’hawala, che rende quasi impossibile seguire le tracce del denaro.
Ma i segnali che arrivano dalle procure, in primis da quella di Prato, sono chiari: la criminalità cinese non è più un fenomeno marginale o folcloristico, ma una vera organizzazione mafiosa che usa la violenza, gestisce affari miliardari e pretende il controllo del territorio. E che oggi, proprio come le cosche italiane, rischia di diventare una minaccia per la sicurezza e l’economia del Paese.