Il Tirreno

La grande forza di Sara: dal dolore nasce l’amore 

di Maria Antonietta Schiavina
Sara Rabà con alcune delle sue Teste Toste
Sara Rabà con alcune delle sue Teste Toste

Dopo la morte del figlio Elia Barbetti, caduto dal sesto piano di un albergo, è riuscita a ripartire e ha un atelier a Campiglia: «Però aspetto ancora la verità» 

22 maggio 2017
6 MINUTI DI LETTURA





Ha trasformato il suo dolore in amore. Per la figlia, Rebecca (21 anni), che ha bisogno di una mamma su cui contare, ma anche per i ragazzi che hanno la stessa età di suo figlio e devono poter credere nel futuro. Dal 15 ottobre del 2015, giorno della morte del figlio, Elia Barbetti (caduto misteriosamente da una finestra del sesto piano di un albergo milanese, mentre era in gita scolastica durante l’Expo, insieme ai compagni del liceo Fermi di Cecina), Sara Rabà si sente come spaccata in due.

«Sto ancora aspettando la verità, così come sto aspettando che chi è stato accanto a mio figlio nelle ultime ore di vita mi dica cosa ha fatto Elia, cosa ha detto, quali sono stati i suoi ultimi momenti prima di quel maledetto volo» dice raccontando il dramma di madre che, oltre alla tragedia subita, non trova risposte ai suoi interrogativi. «In una parte di me – confida– ho un dolore terribile per una mancanza tremenda e quando ascolto il cuore quello strazio è insopportabile, mi impedisce perfino di respirare: è come una morsa che stringe fino alla gola e toglie l’aria. Dall’altra parte, per sopravvivere, ho cercato di imparare ad ascoltare la mente, a essere più razionale – cosa non semplice perché sono un’istintiva e anche il mio lavoro viene dal cuore».ù

Diplomata stilista di moda al Marangoni di Milano, la Rabà – una piombinese che si definisce «figlia di razze diverse, di storie complesse, di mondi non troppo lontani eppure sconosciuti fra loro» – da Populonia dove lo aveva inaugurato nel 2015, un mese fa ha spostato il suo atelier Sara Rabà Labnel centro storico di Campiglia Marittima.

«Il dolore te lo porti sempre dietro, ovunque tu vada – spiega Sara – ma incontrare luoghi e persone nuove che si rivolgono a me con più normalità perché non sanno il mio vissuto mi fa stare meglio, anche se dal giorno in cui è morto Elia nella mia vita si è aperto un baratro e un mostro spaventoso mi è entrato dentro. Era non senso, follia, incredulità, disperazione, era tutto ciò che le parole non potranno mai spiegare. Anche se, nell’incubo delle mie giornate lui mi diceva: sono qui mammina, non mollare, non mollare. È l’amore la via mamma, solo l’amore. L’unica cosa che resta, che nutre, che cura».

Sapeva che Elia fosse così amato come abbiamo scoperto tutti dopo la sua morte?
«No. L’ho capito al suo funerale, vedendo persone di tutte le età che lo piangevano, ricordavano lui, il golden boy. “Elia Barbetti, perché quel sorriso rimanga per sempre”», è scritto ovunque, anche sul campo di calcio sussidiario a lui dedicato. Tutto quell’amore è stato curativo, ha alleviato la mia disperazione e il desiderio di morire».

Sono arrivate però anche le critiche.
«Insieme agli insulti, ai giudizi. “Se l’è meritata, se l’è cercata, forse la mamma era troppo occupata ad uscire con le amiche per crescere suo figlio: un depresso, drogato, bipolare, aggressivo”. Parole assurde, luoghi comuni, moralismi inutili, falsità, perché Elia era tutt’altro».

Come è riuscita a superare tanta cattiveria?
«Per caso, anche se il caso non esiste, ho trovato nell’armadio di mio figlio – che un giorno ho aperto per dare a ognuno dei suoi amici un ricordo – la fotocopia di una lettera di Einstein indirizzata alla figlia, la cui frase finale: “Ho bisogno di dirti che ti amo e che grazie a te sono arrivato all’ultima risposta” mi ha fatto capire tante cose. Mi sono detta che avrei dovuto trasmetterlo quell’amore, per far sapere ai giovani che le emozioni si trasformano, che le cose possono essere guardate da un altro punto di vista; che l’apparenza è fumo, che i luoghi comuni sono un insulto all’intelligenza e che la morte è vita».

E ha pensato di raccontare il tutto attraverso le sue Teste Toste.
«Bambole curative di stoffa, cucite a mano una a una e fatte d’amore, perché se è vero che, come diceva Einstein, la materia è energia che vibra, sarà l’amore a vibrare nelle mani di quei bambini che stringeranno tra le braccia una testa tosta. Sarà il mio dono al mondo, sarà far vivere mio figlio, sarà mandare un messaggio subliminale e cioè che l’amore c’è, esiste, è curativo ed è soprattutto immortale. Come ho creato mio figlio, che ha portato amore a chi è capitato sulla sua strada, creerò tanti piccoli Elia, che andranno a nutrire tutti i bambini che ne avranno bisogno».

[[atex:gelocal:il-tirreno:site:1.15376817:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.iltirreno.it/image/contentid/policy:1.15376817:1652397173/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

Fra le domande che la gente le pone, indagando sul suo dolore, quale le dà più fastidio?
«Quella più frequente: Hai saputo niente? Oppure: Come fai ad andare avanti? Ma mi feriscono anche certi silenzi accompagnati da sguardi di compassione. Avrei bisogno che mi si regalasse un sorriso, invece spesso devo essere io a consolare gli altri».

Tragedie come la sua ridimensionano il modo di vivere.
«Totalmente. Io sono cambiata. Vivo in modo diverso, vedo le cose in maniera diversa. Certi problemi che prima mi mettevano ansia adesso mi scivolano addosso: ho solo un grande problema e tutto il resto non conta».

Prima della scomparsa di Elia ha vissuto un’altra tragedia.
«La morte nel 2013, per una terribile malattia, di Cristiano, il compagno con cui ho condiviso tre anni bellissimi: un pittore e poeta che faceva l’amministratore nell’azienda di famiglia. Una persona che mi ha sostenuto e spronato, cercando di convincermi che avevo talento e che un giorno è arrivato a casa con la macchina piena di rotoli di tessuto, pezze di cotone, seta e lino, invitandomi a prendermi sul serio e a dare finalmente una svolta alla mia vita per realizzare i miei sogni».

E lei come ha reagito?
«Per tre giorni sono rimasta a guardare quei tessuti. Non avevo mai tagliato o cucito – sapevo solo disegnare -, ma spronata da Cristiano iniziai a tagliare il primo tessuto con il cuore che mi batteva forte».

Il risultato?
«Qualcosa che non aveva una forma, che non capivo bene da dove fosse uscito. Un pantalone se lo mettevo a testa in giù, una maglia se lo giravo a testa in su. I miei primi trasformabili, la mia prima collezione estiva, ma soprattutto la convinzione che niente è come appare, che le cose vanno guardate da diversi punti di vista e che questo messaggio sarebbe stato presente in ogni mio capo. Uno showroom di Roma notò i miei modelli su instagram e partii con la mia prima produzione. Ricordo che Elia sorrideva e urlava: Daje Mamà, sei una grande!».

Si è finalmente convinta ad avere fiducia in se stessa?
«Sì e sono andata avanti senza più fermarmi, facendo anche tre stagioni estive come cameriera, per trovare il denaro da investire in quella che stava diventando la mia realtà. Una gavetta intensa ma in seguito anche una grande medicina contro il dolore per la perdita di Cristiano».

Il primo giugno 2015 è iniziata la sua avventura di imprenditrice.
«Investendo con paura quel poco che avevo ho dato vita, insieme a un’amica, alla “gastronomia sartoriale”, bottega dal gusto toscano, dove oltre a scegliere l’abito esclusivo su misura, si potevano degustare prodotti tipici. Elia quell’anno era stato rimandato in due materie e, per punizione, veniva due giorni alla settimana a darmi una mano. Il suo sorriso, la sua bellezza esteriore e interiore, il lavoro che andava bene, i complimenti dei clienti. Per la prima volta nella mia vita, finalmente tutto sembrava andare bene. Ma si trattava soltanto di un bellissimo sogno».

#RITRATTI - LE ALTRE USCITE
 

Primo piano
L’intervista

Elezioni, il sondaggista Fabrizio Masia: «Meloni dalla Leotta funzionerà». I voti ai partiti oggi: «FdI al 28%»