La promessa di Chico Dionisi: «Livorno, vorrei portarti più su»
Il capocannoniere: «Sogno un futuro qui per dare il mio contributo, sarebbe bello lasciarci dove ci siamo incontrati la prima volta...»
LIVORNO. Ai sogni, lui non ha mai smesso di credere. Nel nome di uno di questi, il primo settembre 2024, dopo una stagione in Serie B con la Ternana e una maledetta retrocessione, Federico Dionisi ha fatto decidere il suo cuore. È tornato al Livorno, la società che lo aveva fatto debuttare sul palcoscenico del calcio che conta 11 anni prima e lo ha capito subito che questa sarebbe stata una stagione particolare. Nelle scarpe ci ha messo l’esperienza, ma soprattutto l’anima. «Abbiamo riportato questa città e questa società nel calcio professionistico. Sono a disposizione della società, parleremo del futuro. Ma sì, non lo nascondo: il mio desiderio più grande è di osare ancora. Non sarà facile scalare le categorie rapidamente, eppure io vorrei riportare il Livorno lì dove l’ho trovato. In Serie A».
Dionisi, perché ha detto sì a questa avventura amaranto?
«Perché io sono quello che ama le sfide, che non sceglie mai la strada più semplice. Conoscevo molto bene la piazza, importante: c’era bisogno di dare un contributo per riportare questa squadra fuori dall’anonimato e non mi sono tirato indietro. Dentro di me ha prevalso la volontà di ripagare la fiducia di chi mi ha dato tanto, quando ancora dovevo farmi».
Quando ha capito che sì, questa squadra avrebbe potuto farcela?
«Dal primo istante in cui ho visto i miei compagni in campo, in Coppa Italia contro il Grosseto. Nello spogliatoio si respirava qualcosa di importante: ho percepito che, lavorando avremmo potuto legare il nostro nome al “Rinascimento” amaranto».
Quale la caratteristica della squadra che più le piace?
«È una qualità morale. Questa squadra rispecchia il modo di essere della città. Penso alle tante partite vinte in rimonta: nonostante gli “schiaffi” rimediati, siamo stati in grado di rimettere la barra al centro e ripartire, rovesciando risultato e prospettiva. Il Livorno non molla, non si piega: se anche cade, poi si rialza. Lo abbiamo capito tutti e tutti ci siamo impegnati per tagliare quanto prima il traguardo».
Lei ha avuto modo di lavorare con diversi allenatori, da Baroni a Nicola, da Nesta a Stellone. Indiani dove si colloca?
«È un cultore del lavoro, un uomo di calcio che conosce i segreti di questo mondo come pochi. I traguardi che ha tagliato, come le 11 promozioni in carriera, non arrivano per caso. E quando riesci a chiudere i conti di un campionato di D con così tanto anticipo e con un vantaggio così ampio rispetto alle dirette concorrenti, vuol dire che hai rasentato la perfezione».
Cosa l’ha colpita?
«La competenza in materia, la capillarità nel lavoro quotidiano, la capacità di non lasciare niente al caso. È un allenatore moderno, di quelli che cambia fisionomia tattica alle squadre al bisogno, dimostrando una visione di gioco a 360 gradi. Prendete questa stagione: prima abbiamo fatto benissimo nella fase offensiva, faticando di più in quella difensiva. Poi però, coi giusti correttivi, anche nella scelta del modulo, abbiamo trovato il punto di equilibrio. È uno di quelli che lavora a capo fitto».
A impressionare, di questa squadra, è anche la capacità di ciascun giocatore di incidere, scendendo in campo dall’inizio o subentrando.
«Credo che il Livorno sia tra le squadre con maggiori rotazioni. Siamo tutti parte di uno stesso gruppo che lotta per i medesimi obiettivi: è un valore aggiunto, costruito settimana dopo settimana».
Dei 13 gol realizzati fin qui, qual è quello a cui è più legato?
«Il primo, quello del 2-1 contro il Trestina. Un po’ perché segnato al Picchi, davanti alla nostra tifoseria, un po’ perché era quasi un segno del destino: Andrea Luci, un simbolo, quella domenica segnò la rete del momentaneo 1-1 e io chiusi il cerchio. Quello è stato il punto di partenza per scalare la classifica e di ripartenza per la società: perché il Livorno non doveva stare un giorno in più alla periferia dell’impero del pallone».
Il suo abbraccio a Filippo Tani, dopo la pesantissima sconfitta col Ghiviborgo, è una delle immagini più belle del calcio: il senatore che rinfranca il giovane.
«Le lacrime di Pippo erano il sentimento di tutti. Ma in quella partita non c’è stato un solo responsabile, semmai uno scivolone collettivo. È compito dei più esperti far crescere i giovani e cercare di sollevare i fardelli dalle loro spalle. Da livornese e da tifoso del Livorno, per lui, quella ferita è stata ancora più difficile da metabolizzare. È stato un gesto istintivo, anche perché questo spogliatoio è prima di tutto una famiglia».
Dionisi ma il suo futuro di che colore vorrebbe colorarlo?
«Se ci sarà la possibilità, spero di continuare ancora qui. Sono state gettate le basi, continuiamo».
Cosa le resta dell’abbraccio della città di domenica scorsa al Picchi?
«Le emozioni. E l’entusiasmo della gente. La città e la tifoseria sono ferite per quanto accaduto negli ultimi anni: tocca a noi lenire il dolore. Intanto, continuiamo a macinare vittorie, già domenica contro il Flaminia. C’è un campionato da finire e poi dobbiamo pensare alla Poule scudetto. Sì, il sogno più bello sarebbe quello di accompagnare questo club e salutarlo lì dove ci siamo trovati». In Serie A.
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