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Livorno

L'intervista

Livorno, morta suicida a 41 anni in psichiatria: «Reparto senza aiuto dal territorio»

di Stefano Taglione
Il presidente dell'associazione "Avofasam", Riccardo Bientinesi
Il presidente dell'associazione "Avofasam", Riccardo Bientinesi

Il presidente di Avofasam, l'associazione a tutela della salute mentale, Riccardo Bientinesi: «Si chiudono i presidi cittadini, così l'ospedale è sotto pressione e si rischia il sovraffollamento. Problemi di sicurezza in corsia? Probabile, ma la conseguenza non deve essere legare i pazienti ai letti»

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LIVORNO. «Non posso parlare del caso specifico, visto che nei dettagli non lo conosco, ma se questa signora è stata ricoverata con il suo consenso è chiaro che nel reparto dell’ospedale non ha trovato alcuna risposta, visto che si è tolta la vita. I suicidi, secondo la mia esperienza, sono difficilmente evitabili: tu, come sanitario, puoi fare tutto quello che vuoi, ma se la volontà del paziente è quella, alla fine, la probabilità di impedirlo è bassa. In ogni caso, il reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno non può rappresentare il centro delle cure com’è diventato adesso, deve essere l’ultima spiaggia, deve venire dopo le strutture territoriali. E invece non è così, queste vengono chiuse e i malati di mente che non possono stare in casa finiscono in corsia».

A parlare è Riccardo Bientinesi, il presidente della livornese “Avofasam”, l’associazione di volontariato familiari per la salute mentale. Il responsabile del collettivo labronico, che ha promosso anche vari convegni a tema con la dirigenza dell’Asl Toscana nord ovest, parla dopo la tragedia avvenuta nella notte fra Santo Stefano e ieri nel padiglione 10 di viale Vittorio Alfieri, dove una donna di 41 anni si è tolta la vita dopo mezza giornata di degenza. I sanitari l’hanno trovata cadavere in un bagno del reparto e purtroppo, per lei, non c’è stato niente da fare, con i carabinieri che, delegati dalla procura, hanno avviato le indagini dopo la denuncia presentata dai familiari. Così anche l’azienda sanitaria, che ha aperto la procedura per un audit interno proprio per fare luce sulle procedure adottate.

Bientinesi, nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno c’è un problema di sicurezza?

«Ci sarà senz’altro, ma ci sono le sbarre, pare un carcere. Non vorrei che se parlassimo di insicurezza i pazienti venissero poi legati ai letti. Non è certo questa la soluzione, devono essere assistiti in modo umano e rispettoso della legge e della dignità delle persone».

C’è un problema di sovraffollamento secondo quanto risulta alla vostra associazione?

«Sicuramente, anche perché per essere ricoverati i pazienti un po’ aspettano. Il problema nasce dalla chiusura delle strutture territoriali, che invece dovrebbero rappresentare il fulcro della cura della salute mentale».

Si spieghi meglio.

«Parlo del “Basaglia” (chiuso dallo scorso novembre per inagibilità ndr), ma anche di altri presidi. Se tu li chiudi, il paziente poi dove deve andare? In ospedale, ovvio. Il reparto di psichiatria di viale Alfieri, invece, dovrebbe essere l’ultimo posto dove recarsi in caso di bisogno, perché in un sistema che funziona ci vai solamente quando non stai più nemmeno in piedi, se non riesci a camminare insomma. Dovrebbe, appunto, rappresentare l’ultima spiaggia».

Un po’ come se mancassero i medici di base e tutti dovessimo andare, per qualsiasi problema di salute non urgente, al pronto soccorso.

«È esattamente questo il punto: se non hai una risposta sul territorio, per qualsiasi problema di salute ti concentri al pronto soccorso. Con la psichiatria vale lo stesso ragionamento: non c’è una risposta sul territorio, quindi tutto gravita sull’Spdc, il servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale. Non è così che dovrebbero funzionare le cose».

Quindi quale soluzione propone?

«Non depotenziare l’assistenza territoriale, lasciando aperte le strutture che ci sono e incrementandole. Non si può tagliare per inseguire un risparmio, quando si crea sofferenza».

La tragedia avvenuta la scorsa notte denota, secondo lei, anche un problema di insufficienza di organici nel personale sanitario del reparto?

«È chiaramente impossibile avere un rapporto infermiere-paziente di uno a uno, nessuno chiede questo. Però è chiaro, quello che è successo impone una riflessione: vai all’ospedale perché dovresti sentirti sicuro e poi succede questo. La verità è che la salute mentale è in totale abbandono. Io non so quanti sanitari lavorino al decimo padiglione, quello dovrebbe dircelo l’Asl Toscana nord ovest, ma penso che quel reparto debba essere più aperto verso l’esterno. Non si deve chiudere in se stesso».

Come?

«Noi, un tempo, entravamo dentro per portare i libri ai pazienti. Ora non più: c’è chiusura. Le persone con disturbi mentali devono poter vivere all’aperto, non sono solo malati da seguire con una terapia. Devono essere assistiti in modo umano e bisogna capire, parlando con loro, che problemi hanno e come possono essere risolti. Questa è la sanità che vorrei».

Secondo lei, insomma, molti di coloro che vengono ricoverati nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno potevano essere intercettati prima nelle strutture territoriali.

«Esatto, è così. Chi viene ricoverato in ospedale è già stato abbandonato prima. Le strutture territoriali dovrebbero essere in grado di intercettare le criticità prima che queste si aggravino».

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