Il Tirreno

Livorno

La strage

Moby Prince, Piero Neri alla commissione d'inchiesta: «Partii sul “Tito II” e trovammo l’inferno dantesco»

di Stefano Taglione
A sinistra il Moby Prince distrutto dalle fiamme. A destra Piero Neri in audizione accanto al presidente della commissione d'inchiesta, Pietro Pittalis
A sinistra il Moby Prince distrutto dalle fiamme. A destra Piero Neri in audizione accanto al presidente della commissione d'inchiesta, Pietro Pittalis

L’imprenditore e presidente livornese di Confindustria ha parlato a Palazzo San Macuto: «Un nostro marinaio salì a bordo, ma venne richiamato dal comandante perché rischiava l'incolumità»

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LIVORNO. «Appena mi telefonarono dall’ufficio, spiegando sulla base delle poche informazioni disponibili ciò che stava succedendo, mi recai all’Andana degli Anelli, dove allora erano ormeggiati i nostri rimorchiatori, e mi imbarcai sul Tito Neri II, in quel momento a banchina. A bordo, oltre all’equipaggio, c’era mio fratello Tito e due cugini, anche loro di nome Tito. All’epoca nella nostra famiglia c’erano più “Tito”: oltre a me, a bordo, c’erano insomma tre Tito Neri. L’equipaggio era di quattro persone e per uscire dal porto, per via di accordi sindacali, in quegli anni in alcuni casi ne era previsto il raddoppio o l’aumento del 50%. Il Tito Neri II non era in servizio portuale, ma era comunque a Livorno e per uscire dovevamo appunto incrementare il personale marittimo del 50%. Ricordo benissimo che a banchina c’era il delegato sindacale Roberto Rosato che voleva impedirci di uscire: noi, con un atto di forza, convincemmo il comandante a prendere comunque il largo perché a banchina non c’erano altre persone disponibili».

A parlare a Palazzo San Macuto, davanti alla terza commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage del Moby Prince, il presidente di Confindustria Livorno Piero Neri, dal 1970 amministratore delegato della “Fratelli Neri”. Nell’audizione di martedì 25 settembre, rispondendo alle domande del presidente Pietro Pittalis (Forza Italia), l’imprenditore ha ripercorso la tragica sera del 10 aprile 1991. Lui era lì, su uno dei rimorchiatori, e ha raggiunto prima l’Agip Abruzzo in fiamme, poi – quando via radio il comandante ne è stato informato sulla presenza – il traghetto Navarma. «Uscimmo nonostante questa persona urlasse come un forsennato dalla banchina e mentre eravamo in navigazione utilizzammo il radar perché la visibilità era molto limitata. Insieme a noi, sul rimorchiatore – le sue parole – c’era il nostromo della capitaneria di porto Felice Manganiello e mi sembra anche il pilota del porto Sgherri (Federico, l’ex capo dei piloti morto nel 2018 a 82 anni ndr). Quando giungemmo sotto la nave trovammo l’inferno: oltre all’incendio a bordo, infatti, c’era pure quello in mare. L’Agip Abruzzo, al nostro arrivo, aveva la prua verso nord. Noi abbiamo accostato sulla sinistra, siamo arrivati dal lato del mare e ci siamo approssimati sulla poppa. Lì c’era già un rimorchiatore sociale che stava collaborando per accogliere l’equipaggio che stava abbandonando la petroliera. In prossimità della poppa una voragine enorme: sembrava appunto l’Inferno dantesco. Con le possibilità antincendio del rimorchiatore iniziammo a gettare acqua nella voragine e sulla coperta per impedire che le fiamme si propagassero ulteriormente. A un certo punto fummo avvertiti via radio che c’era un’altra nave, la Moby Prince appunto. Dopo averla individuata, con le spingarde tentammo di spegnere l’incendio e, per quanto possibile, di rompere gli oblò dei saloni per far arrivare l’acqua dentro, ma c’erano fiamme ovunque. Erano presenti altri rimorchiatori sociali e dopo un certo periodo di tempo tornammo dall’Agip Abruzzo».

Neri, rispondendo alle domande del presidente Pittalis, ha poi precisato di essere «stato sentito dall’autorità giudiziaria due anni fa e poi da nessun altro». «Non ricordo quali mezzi furono impiegati quella notte – ha proseguito – comunque tutti quelli che potevano partire in funzione della disponibilità degli equipaggi, perché ognuno doveva essere di sei persone. Se ci fu una limitazione dei mezzi, ma non credo, era solo dovuta a questa necessità di personale. Non c’era nessun contratto, è un dovere: ogni persona che opera in mare, in caso di emergenza, deve fare il possibile per offrire aiuto al di là di qualsiasi rapporto economico. Noi, neanche in seguito, abbiamo avuto rapporti contrattuali con Snam per quello che avevamo fatto».

All’imprenditore è stato poi domandato del perché il comandante dello stesso “Tito Neri II”, attorno alle 2 di quella notte, abbia fatto scendere dal Moby Prince il marinaio Gianni Veneruso, salito a perlustrare un ponte esterno del traghetto distrutto dalle fiamme, sul quale aveva lavorato in passato ed erano imbarcati un suo cugino e altri ex colleghi che conosceva benissimo. «Io nel frattempo ero passato su un altro rimorchiatore, il “Tito Neri IX” – la risposta del presidente di Confindustria Livorno – e questo non me lo ricordo. Ma il comandante Mazzoni (quello del “Tito Neri II” ndr) ha dichiarato che la persona che salì a bordo non aveva alcun equipaggiamento per proteggersi. Se è stato richiamato sul rimorchiatore, evidentemente, il comandante riteneva a rischio la sua incolumità. Il compito dei rimorchiatori è commerciale, ma poiché avevamo un sistema con spingarde antincendio abbiamo fatto tutto il possibile. Aggiungo che tutto va calato nella realtà del ’91: tutti i porti avevano dei rimorchiatori, al di là del servizio di competenza dei pompieri, con mezzi antincendio molto limitati. In quel momento la capacità dei mezzi era di 200 metri cubi l’ora, con una gittata di 30-40 metri da prua. I rimorchiatori, per poter fare un intervento relativamente efficace, dovevano stare con la prua o la poppa attaccata alla nave, con un rischio enorme: sinceramente oggi non mi sentirei di dare ordine ai nostri rimorchiatori di fare quello che hanno fatto quella notte. Gli equipaggi hanno rischiato la vita, ci fu a un certo punto un’esplosione e un detrito andò a conficcarsi nella poppa di un mezzo. Oggi la capacità antincendio dei rimorchiatori – prosegue Neri – è oltre dieci volte tanto, perché tutti quelli nostri che svolgono servizio a Livorno hanno una capacità di 3.000 metri cubi l’ora, con una possibilità di restare a distanza dalle navi per 50-60 metri. Tutto va quindi calato in quel periodo e oggi mi auguro che non succeda più, ma le possibilità tecniche di intervenire sarebbero comunque enormemente superiori».

L’imprenditore ha parlato anche della presenza delle navi americane in porto e del ruolo che la sua società poteva avere, alle volte, nell’assisterle. «I rapporti della “Fratelli Neri” con Camp Darby per i trasporti pericolosi sono andati avanti per tanti anni dopo la guerra. Se la base – spiega – nel ’91 riceveva delle munizioni lo faceva attraverso navi specifiche, che noi rimorchiavamo soltanto. In ogni caso per motivi di sicurezza non succedeva mai di notte».

Poi, a proposito della presenza di un peschereccio in porto sfilato proprio in quei momenti vicino ai rimorchiatori, Neri ha spiegato che «noi lo abbiamo visto quando eravamo sempre in porto e non potevamo sapere se venisse da sud o da nord. Di notte a Livorno c’è sia traffico in entrata che in uscita, anche se le navi più grandi avevano difficoltà a uscire nelle ore notturne. A questo si aggiunge il traffico dei pescherecci, connaturato alle operazioni di pesca, con lo sbarco del pesce la mattina presto. Le imbarcazioni da diporto entrano ed escono senza alcun coordinamento anche oggi».

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