Massa, muore neonato per errore durante il parto: ginecologa e ostetriche condannate – I nomi
La condanna prevede anche un maxi risarcimento da 650mila euro: «Non hanno proceduto a una rapida estrazione fetale»
MASSA. Non si accorsero della sofferenza del feto. Una negligenza costata la vita a un neonato che non riuscì a vivere neanche un mese. La risposta avrebbe dovuto essere quella di portare la futura mamma in sala per un cesareo d’urgenza. Decisero per il parto naturale. Un errore che segnò il destino del piccolo nato il 29 aprile 2009 e morto il 23 maggio al Meyer, dove era stato trasferito per le gravissime lesioni cerebrali provocate dalla prolungata carenza di ossigeno. Un’ipossia fatale. Condannate nel penale in tre gradi giudizio per omicidio colposo a otto mesi con la condizionale, la ginecologa Yvonne Paita, 61 anni, di Arcola (La Spezia) e le ostetriche Anna Maria Croce, 66 anni, di Massa e Francesca Musetti, 40 anni, di Pontremoli, vengono ora riconosciute responsabili anche in sede civile dal Tribunale di Massa. Il risarcimento supera i 650mila euro a cui vanno sottratti i 400mila euro di provvisionale versata ai genitori del neonato per effetto della sentenza penale. Una decina di anni fa la mamma è morta e nella causa sono rimasti il marito e il figlio nato dopo la tragedia avvenuta nel reparto materno-infantile dell’Opa.
La colpa medica
Le consulenze nel procedimento penale sono state ritenute efficaci anche nella causa civile. La colpa delle tre operatrici è stata quella di «non aver proceduto ad una rapida estrazione fetale (con cesareo) imposta dal grave stato di sofferenza fetale». Nella fase iniziale del travaglio, il feto si trovava in buone condizioni. Solo nell’ultima parte si trovò in sofferenza, subendo una prolungata carenza di ossigeno. Di qui le lesioni cerebrali accertate a seguito della nascita. «Ne deriva che la responsabilità non può che essere ricondotta all’operato dei sanitari intervenuti durante il travaglio di parto – si legge nella sentenza –. Per quanto si trattasse di una gravidanza a rischio e sebbene dal tracciato cardiotocografico emergessero, già a partire dalle ore 22,47, c’erano segnali di alterazione che avrebbero dovuto indurre la ginecologa a una più assidua e personale vigilanza (segnali il cui omesso riconoscimento integra, di per sé, imperizia che assunse rilievo causale sulla successiva sequenza di condotte che portarono al decesso del neonato). La stessa l’affidò, di fatto, al controllo delle sole ostetriche, per andare a visitare un’altra paziente il cui travaglio non era, in quel momento, in fase attiva, per poi tornare a verificare il tracciato cardiotocografico della paziente, per quanto dichiarato dalla medesima imputata, soltanto intorno alle ore 0,10 ed intervenire di nuovo alle 1,40, per la fase espulsiva. Essendo il lasso temporale intercorso nelle more, eccessivamente ampio, evidentemente dovuto a negligenza, a fronte dei doveri che gravavano sulla ginecologa».
I tempi
Se il medico fosse stato più attento, è il ragionamento del Tribunale, avrebbe avvertito in tempo utile i segnali di sofferenza fetale «per procedere tempestivamente, già intorno alle 0,29 al cesareo o ad altre pratiche ed interventi, anche di natura farmacologica, diretti ad evitare i danni cerebrali patiti dal feto». Gli errori delle ostetriche sono stati equiparati a quelli della ginecologa avendo «omesso di considerare adeguatamente (se non addirittura di riconoscere), una volta che la dottoressa ebbe ad allontanarsi, gli allarmanti segnali evincibili dal tracciato cardiotocografico, la cui verifica rientrava nelle competenze proprie della loro figura professionale. Avendo anche omesso, comunque, di chiamare la ginecologa dell’andamento del suddetto tracciato, che non furono evidentemente in grado di interpretare adeguatamente». Una sommatoria di negligenze che portarono alla morte del neonato.
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