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Donne e fotografia: tra Lucca e Livorno si (ri)scrive la storia

di Valentina Landucci
Donne e fotografia: tra Lucca e Livorno si (ri)scrive la storia

Il progetto di ricerca della Scuola Imt partito dalle sorelle Marsini “fotografiste”

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LIVORNO. C’è una storia da riscrivere. Una Storia con la S maiuscola. E c’è chi lo sta facendo. Non è quella, come forse una certa retorica tende a esaltare, anche giustamente, delle “prime donne” a compiere imprese memorabili in ruoli storicamente appannaggio degli uomini. La prima donna laureata in legge, la prima astronauta, la prima premio Nobel. E così via. Traguardi conquistati con capacità e tenacia, riconoscimenti più che legittimi ancorché tardivi. Tutto questo è già Storia. Ma non basta. I nomi di quelle pioniere sono leggenda.

Ma le Ada Lovelace (prima donna programmatrice), le Amalia Earhart (aviatrice e prima donna a volare da sola sull’Oceano Atlantico), le Marie Curie (scienziata e premio Nobel) sono la punta dell’iceberg di un universo dimenticato, l’immagine tanto autentica quanto assolutamente parziale di una realtà fatta di infiniti nomi di donne alle quali è stato negato il ruolo di protagoniste nella società, nel lavoro, nella cultura che pure hanno decisamente contributo a cambiare, a far crescere: invisibili o, nella migliore delle ipotesi, rimaste tra le pieghe di una narrazione per lo più a senso unico di cui sono state vittime e anche complici. Ma, appunto, nelle pieghe qualche cosa talvolta rimane. Così capita che in un articolo di un giornale locale del 1989 spuntino fuori i nomi di due sorelle lucchesi vissute nell’Ottocento di professione “fotografiste”. E che la loro storia incuriosisca chi di media, immagini e società ha fatto il proprio campo di ricerca, come la professoressa Linda Bertelli dell’Unità di ricerca Lynx (Center for the Interdisciplinary Analysis of Images, Contexts, Cultural Heritage) della Scuola Imt Alti Studi Lucca. Una circostanza un po’ casuale che diventa un progetto di ricerca, parte da Lucca e Livorno e si allarga all’intero Stivale per diventare un capitolo dell’enorme volume nel quale riscrivere o finalmente scrivere la Storia di milioni di donne.


Le sorelle fotografiste

Ed eccola allora la storia lucchese. Ha il gusto di una favola antica, come la carta conservata nell’archivio storico di Lucca vergata con caratteri lunghi ed eleganti nella quale, nel 1870, Giuseppina ed Emilia Marsini chiedono l’autorizzazione per posizionare una insegna di grandi dimensioni in via San Nicolao. Lì si trova il loro studio di fotografe o, come loro stesse si definivano, declinando al femminile il termine usato dagli uomini per quella professione appena agli esordi, fotografiste. Giuseppina ha 35 anni, Emilia 23. Ma in città sono già conosciute. La fotografia di cui si occupano è una innovazione recente e straordinaria. E come tale richiestissima dalle famiglie ricche ma anche dalla media borghesia, talvolta anche dai ceti più umili e dal mondo dello spettacolo. Avere un proprio ritratto ora non è più così impegnativo come un tempo, quando toccava commissionarlo a un pittore. Le due sorelle Marsini hanno l’attrezzatura che serve per realizzare il desiderio di molti e guadagnano bene tanto da poter vantare, nel 1870 appunto, uno studio di proprietà. Non solo. Nel censimento dell’anno successivo, il 1871, la più grande, Giuseppina, viene indicata come capofamiglia dei Marsini pur essendo sempre in vita il padre, di professione confetturiere, a dimostrazione forse della rilevanza economica che ha assunto l’attività delle due sorelle. Già alcuni anni prima il loro nome circolava nell’ambiente dei professionisti di questa nuova frontiera dell’immagine: nel 1867 avevano partecipato e ottenuto anche un riconoscimento nel corso di una fiera dedicata alle arti e ai mestieri in città. Sicuramente fotografavano già da qualche anno, probabilmente appoggiandosi a un altro studio cittadino, al numero 45 di via del Castellaccio. Poi il successo ha consentito loro di crescere aprendo a Lucca e poco dopo anche a Livorno, dove la famiglia si sposta dal 1873, nell’attuale piazza della Repubblica che all’epoca si chiamava piazza d’Arme. Le fotografiste lucchesi appaiono poi come socie capitaliste di un altro studio fotografico, quello dei fratelli Borgiotti, stavolta a Firenze. Né a Lucca né a Livorno ci sono certificati di matrimonio delle due sorelle, non sappiamo se avevano mariti o figli. Non sappiamo neppure come erano fatte. E sono pochi, pochissimi i lavori realizzati da Giuseppina ed Emilia arrivati fino a noi. E il punto è proprio questo. Com’è possibile che di due donne, giovani, intraprendenti, protagoniste di un successo imprenditoriale indubbio in un campo che all’epoca rappresentava l’avanguardia della tecnologia, a contatto con così tante persone proprio in virtù del loro lavoro, siano rimaste così poche tracce? A Livorno c’è praticamente solo un indirizzo. A Lucca poco più di questo. Quando muoiono, probabilmente senza eredi, le loro attività vengono cedute ad altri e si spegne la luce – una luce che deve essere stata molto brillante – sulle Marsini. E su quante altre donne come loro si è spenta la luce? Su quante forse non è mai stata accesa?


L’inizio della Storia

Linda Bertelli è livornese ma lavora a Lucca ormai da tempo. Che sono già due punti in comune con le nostre sorelle lucchesi. È professoressa di Estetica e Studi visuali alla Scuola Imt Alti Studi Lucca e in quanto tale si occupa molto di fotografia. E siamo al terzo punto di contatto. Se non fosse per lei e il suo gruppo di lavoro le Marsini sarebbero rimaste nelle pieghe di quel volume mai scritto. La professoressa si è occupata del progetto “Archivi in rete” realizzato dalla Scuola per valorizzare il patrimonio fotografico delle istituzioni presenti a Lucca. «Lavorando a questo progetto abbiamo incontrato il nome delle due sorelle Emilia e Giuseppina Marsini di cui si parlava in un articolo di giornale del 1989 nel quale venivano ricordate per essere state premiate ad una esposizione provinciale di arti e mestieri nel 1867 – racconta Linda Bertelli – L’articolo riporta anche il fatto che le due sorelle si firmavano “fotografiste” e questo ci ha colpito, volevamo anzitutto capire perché non si definissero fotografe. In realtà, tramite la ricerca di archivio, abbiamo capito che avevano declinato al femminile un termine che era allora in uso indistintamente anche per i maschi: gli uomini erano fotografisti e quindi loro fotografiste». Le Marsini sono state però solo l’inizio. «Abbiamo cominciato a ragionare in una dimensione più grande – prosegue Bertelli – notando la ricorrenza di un fenomeno: quando comincia ad affermarsi un medium particolarmente innovativo, come era la fotografia negli anni in cui sono vissute Giuseppina ed Emilia, a lavorarci per prime sono molte donne, fondamentalmente per una ragione sessista: facciamo sperimentare prima loro». Un “mandare avanti” le donne che per loro rappresenta una opportunità economica ma dentro una logica diametralmente opposta a quella delle “pari opportunità”. «Da questa considerazione ci è venuta voglia di proporre un progetto nella convinzione che di fotografe con un proprio studio e di donne che lavoravano nel settore nei primi 100 anni di storia della fotografia, tra il 1839 e il 1939, ce ne fossero molte» spiega ancora Bertelli. L’Imt non si è mossa da sola ma è andata a cercare i migliori partner per sviluppare il progetto, tra questi l’Accademia di Brera con la professoressa Nicoletta Leonardi «una delle massime esperte di storia della fotografia in Italia» precisa Bertelli. Una collaborazione pensata anche per affiancare a una realtà piccola come Lucca quella della città metropolitana e di un archivio che raccoglie le immagini dei grandissimi studi fotografici: Alinari, Brogi, Macpherson, solo per fare qualche esempio. Obiettivo? Trovare donne titolari di studi, donne che lavoravano negli studi, cercarle e studiarle attraverso archivi di piccole dimensioni o di grandissime, nelle città minori dove più frequentemente si stabilivano, ma anche nei grandi centri. «Da questo punto di vista – aggiunge Bertelli – è interessante vedere che la geografia della fotografia cambia se si segue il lavoro delle donne». I numeri della ricerca, al giro di boa del progetto (della durata di 24 mesi, finanziato con fondi ministeriali in quanto Prin, cioè Progetto di rilevante interesse nazionale), sono rilevantissimi: la lista di studi fotografici dove hanno avuto un ruolo importante le donne o di cui erano proprietarie conta 195 nomi e indirizzi. Ma anche solo trovarli è stato un lavoro incredibile: le tracce attraverso i documenti ufficiali sono poche e le testimonianze fotografiche arrivate fino a noi ancora meno.

Tante domande, poche risposte e un grande lavoro

Perché le sorelle Marsini, figlie di un confetturiere, cominciano a fare fotografie? E che fine hanno fatto quelle immagini? Perché pochissime purtroppo sono quelle che la professoressa Bertelli e il suo gruppo sono riuscite a recuperare. Probabilmente in qualche album di famiglia dimenticato nelle soffitte lucchesi ce ne saranno alcune. Resta il fatto che di loro e delle quasi 200 colleghe che lavoravano nel settore in Italia ci sono pochissime tracce. «Le sorelle Marsini – spiega la docente dell’Imt – come altre donne hanno probabilmente trovato nella fotografia una possibilità di guadagno alla quale gli uomini guardavano addirittura con meno interesse in quel momento». Del loro studio in via San Nicolao a Lucca, come pure di quello nell’ex piazza d’Arme a Livorno non c’è più traccia. L’Archivio fotografico Lucchese “Arnaldo Fazzi” ha restituito alcune immagini del loro lavoro, ma il gruppo di ricerca è ancora impegnato in una difficile caccia al tesoro che contempla documenti e archivi storici solitamente non inclusi in questo tipo di indagini ma indispensabili mancando appunto altre fonti: le carte delle Camere di Commercio, i censimenti e così via. Meno complessa, da questo punto di vista, la ricerca condotta attraverso l’eccezionale patrimonio della fototeca di Brera, ricca di “contesto” grazie a diari, lettere, indagine questa «che si rivolge soprattutto al lavoro delle donne dentro i grandi studi fotografici – continua Bertelli – cosa che ha portato a rivalutare, ad esempio, il ruolo importante delle mogli dei grandi fotografi, come nel caso della moglie di Macpharson, Geraldine Bate, che sappiamo lo accompagnava, fotografava con lui tanto da portare a valutare l’ipotesi di affiancare nelle didascalie, al nome del fotografo, quello della moglie: un piccolo gesto che cambia però tutta la narrazione». Perché in definitiva la questione è esattamente questa: una narrazione per la storia della fotografia e certamente non solo per essa che «quando prevedeva le donne lo faceva per ruoli subalterni, ancillari, mai al centro della storia pur essendo molto presenti nei fatti della Storia». l

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