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Strage del Moby Prince e la giustizia impossibile dopo 33 anni: «Aspettiamo la verità storica»

di Federico Lazzotti
Strage del Moby Prince e la giustizia impossibile dopo 33 anni: «Aspettiamo la verità storica»

Partiti i lavori della terza commissione parlamentare che dovrà individuare la terza nave coinvolta nell’incidente. Ma senza gli strumenti giuridici le indagini sono destinate all’archiviazione: ecco perché

10 aprile 2024
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Livorno Trentatré anni e siamo ancora qua. Ogni benedetto (e maledetto) 10 aprile, sotto l’acqua, il vento che picchia in faccia o il sole che chiude gli occhi. Sempre con quello striscione blu in mano e la scritta bianca: “Moby Prince: 140 morti, nessun colpevole”. Per chiedere ciò che non è mai arrivato o arrivato solo in parte: Verità e Giustizia, percorrendo le vie del centro di Livorno (e del mondo), dal palazzo fino al mare, per ricordare con le magliette rosse e le rose e pretendere con la forza delle parole. Dentro ci sono i gesti di un viaggio coraggioso e doloroso. Ripetendo i nomi di chi se n’è andato in quella notte maledetta, vittima della più grande tragedia della marineria civile italiana.

Di strada ne è stata fatta molta, impossibile negarlo, come ricorda Nicola Rosetti, che da Loris Rispoli ha preso il testimone al vertice dell’associazione 140: «I primi anni siamo stati abbandonati dalle istituzioni, per fortuna prima i vari Comuni ci hanno appoggiato e poi le due commissioni parlamentari hanno fatto luce su molti aspetti della vicenda. Adesso manca il pezzo finale (il nome della terza imbarcazione che avrebbe costretto il Moby alla manovra prima dell’impatto con la petroliera Agip Abruzzo ndr) che la commissione Andrea Romano non è riuscita a svelare perché il governo è caduto. Speriamo ci riesca quella appena insediata. La nostra speranza – va avanti – è di non dover lasciare ai nostri figli l’incombenza di cercare ancora la verità storica, ma di consegnargliela perché possano conservare la memoria». Se la Verità storica sulla tragedia è più vicina, la Giustizia, nella sua accezione classica - l’individuazione del possibile responsabile collegato alla morte delle 140 persone a bordo, il processo e una eventuale condanna confermata in Cassazione - appare quasi impossibile. C’è chi sostiene – e sono diversi – che in passato, in particolare nella prima indagine, ci siano state delle negligenze legate anche a una impreparazione rispetto alla grandezza della tragedia, fatto sta che adesso sembrano mancare, invece, proprio gli strumenti giuridici per andare avanti rispetto a un evento così lontano nel tempo.

Oltre cinque anni fa, l’allora procuratore capo di Livorno Ettore Squillace Greco, aprì un fascicolo – il terzo sulla tragedia del Moby – per atti relativi in seguito alle rivelazioni di un pentito. Un’indagine che poi – con le conclusioni della prima commissione parlamentare (nessuna nebbia, la petroliera in posizione irregolare, ritardo nei soccorsi e accordi oscuri tra compagnie) – si è trasformata in un fascicolo contro ignoti in cui l’ipotesi di reato era di strage, unico reato che permetteva alla Procura di chiedere consulenze, (ri)ascoltare testimoni, come l’unico sopravvissuto, Alessio Bertrand, e le persone informate sui fatti. Difficile pensare oggi a un esito diverso rispetto alla richiesta di archiviazione, anche perché dimostrare che qualcuno «al fine di uccidere» più persone abbia «compiuto atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità» appare complesso. Mentre tutti i reati di natura colposa sono prescritti da tempo.

Aggiunge Luchino Chessa, presidente dell’associazione 10 aprile, figlio del comandante del Moby e fratello di Angelo, scomparso due anni fa dopo una vita in prima linea per la Verità: «Che la giustizia riesca a condannare qualcuno non lo so. In cuor mio confido ancora nella possibilità che il reato di strage venga configurato, perché sono convinto che chi quella notte non ha soccorso il traghetto lo abbia fatto con dolo». Al di là di tutto, resta la questione morale di una vicenda in cui ci sono state comunque più di 140 vittime, non a caso “Io sono #141” è un meraviglioso slogan che rende tutti partecipi, coinvolti.

Eppure c’è un paradosso in questi anni di battaglie civili da parte delle associazioni, ed è la figura dello Stato. O meglio, del comportamento delle diverse istituzioni che lo compongono. Da una parte c’è la politica che sostiene la lotta dei familiari delle vittime e in dieci anni ha organizzato tre commissioni parlamentari aprendo nuovi scenari sulle cause dell’incidente. Ma quando la stessa politica passa la palla alla giustizia, ci si accorge che mancano gli strumenti giuridici che il potere legislativo dovrebbe invece fornire. È anche per risolvere questo corto circuito che i familiari delle vittime, nel 2019, attraverso i loro avvocati, depositarono una richiesta danni al tribunale civile citando il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e della Difesa come responsabili. Era l’occasione perché lo Stato facesse pace col passato e risarcisse, seppur solo economicamente, il danno. Invece il tribunale ha respinto quella richiesta. E i familiari delle vittime – come ricorda Chessa – hanno anche dovuto pagare le spese legali. Ecco perché siamo ancora qua.


 

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