Il Tirreno

LA STORIA

Gli orfani ebrei sopravvissuti all'orrore della guerra

Andrea Rocchi
I bambini dell'orfanotrofio a Sassetta nel 1943
I bambini dell'orfanotrofio a Sassetta nel 1943

Rosignano: cosa è successo ai bimbi dell'orfanotrofio israelitico. Un libro-inchiesta ricostruisce le loro vite

12 gennaio 2015
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ROSIGNANO. Giancarlo Cremisi, Silvano Tacconi, Elvio Millul, David Baruch, Sigfrido Libson, Romano Spizzichino, Armando Acco, Giacomo Baruch, Giuseppe Sitri, Guido Della Torre, Giuseppe Finzi, Leone Carmi, Benito Attal, Ugo Bassano, Beniamino Gabai, Elio Fornai, Ines Cecchi, Laura Gerstenfeld, Luciana Bassano, Marco Finzi, Tina Giaconi. Questi sono i nomi. E i nomi parlano, raccontano storie. Come cosa accadde quel 4 aprile del 1944, il bombardamento alleato sul treno in partenza per il campo di concentramento di Fossoli, una comunità che apre le braccia ad un manipolo di ragazzini impauriti che fuggono sparpagliati dai rumori degli ordigni che piovono dal cielo, del centralissimo bar Impero tenuto aperto di notte per ospitarli, di un prete partigiano di 34 anni che in tre giorni organizza un'operazione di soccorso e solidarietà che passerà alla storia. Spezzoni di vita nota, riassunta nei quaderni vadesi.

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Ma i nomi parlano e se la storia, nei suoi contorni, è chiara e svelata da decine di racconti, aneddoti ed immagini sbiadite in bianco e nero, meno noto è cosa è rimasto. Chi sono, dove vivono, cosa fanno i piccoli orfani di Sassetta salvati dai campi di sterminio nazisti. Cosa è rimasto di loro? Di Benito Attal, ad esempio, resta una dedica che è una frustata che scuote: “Il bambino il cui piccolo corpo si è dissolto nel fumo di Auschwitz, perché qualcuno lo ricordi”. Degli altri orfani restano tracce più o meno sottili nei labiriniti del tempo. Tiziano Arrigoni, professore di lettere e storia all'Isis Mattei e Silvia Trovato, ricercatrice e collaboratrice del Tirreno, si sono messi alla ricerca di queste tracce. Un’operazione di recupero della memoria compiuta in un anno e mezzo di lavoro che ha permesso ai due di abbracciare luoghi cari ai piccoli orfani, le città dell’infanzia: da Livorno a Trieste, da Smrine a Tel Aviv. Una storia riprodotta nel libro di cui si parla qui a fianco.

Tutto parte dai sopravvissuti, dai figli dello storico cappellaio livornese, Ugo e Luciana Bassano, dai loro racconti, dalle trame dei ricordi che mettono Arrigoni e Trovato sulla strada per Trieste, per incontrare Laura Gesrstenfeld, l’altra orfana di origine polacca ancora in vita. Ed a Trieste ecco spalancarsi le testimonianze sulla figura di Beniamino Gabbai, uno dei più piccoli dell’orfanotrofio israelitico. Famiglia proveniente dalla Turchia la cui memoria è filtrata nel racconto emozionato dei figli. E poi da Trieste proviene anche un altro dei piccoli protagonisti di questa storia, Sigfrido Libson, nato nel 1929 nella libera città di Danzica. Lo chiameranno “il ragazzo tedesco” ed avrà un ruolo cruciale tra i piccoli orfani di Sassetta. Il “biondino” era infatti l’unico del gruppo a parlare tedesco e sarà il trait d’union tra gli ospiti della Villa dei Del Gratta (l’orfanotrofio) e i soldati della Wehrmacht che dopo l’armistizio del ’43 e l’invasione tedesca si insediarono in una dipendenza della villa.

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La “casa nel bosco”, appunto: castagni e silenzio. Mentre piovevano bombe, partivano i treni dell'odio, si respirava freddo e paura. Fuori dalla casa del bosco c'era il mondo, il grande mondo. Loro - i bambini dell'orfanotrofio israelitico di Livorno - quel mondo lo vivevano filtrato dai racconti, depurato il più possibile dalle bruttezze della guerra. La villa dei Del Gratta, la "casa nel bosco", sovrastava l'abitato di Sassetta, arrampicata sulla collina o il “poggio” come si chiamava. E' qui che nel maggio del 1943 furono accolti i bambini dell'Orfanotrofio Israelitico di Livorno (il 28 la città aveva sopportato il più duro dei bombardamenti alleati che ne cancellò quasi completamente la fisionomia). Sassetta vivrà il paradosso di un paese che dà rifugio ai ventuno orfani di Livorno (e con loro la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Fenzi e Stefania Molinari e la maesra Liliana Archivolti), ma che ospita un comando tedesco, che vivrà l’ingresso in paese delle terribili Ss del maggiore Walter Reder, “il comandante monco”, che caccerà gli orfani per far posto ad un ospedale militare, che sarà liberata da questo incredibile miscuglio di soldati giapponesi-hawaiani.

Il ricordo indelebile è senz’altro quello legato al fantasma della deportazione, quando quel 3 aprile i carabinieri bussarono alla villa, sede dell’orfanotrofio, e ordinarono lo sgombero. I bambini furono fatti salire su un camion e condotti alla stazione di Vada: destinazione il campo di concentramento di Fossoli, a Carpi. «I ragazzi furono fatti salire su un treno con le panche di legno, il capostazione fischiò la partenza, il destino sembrava ormai segnato quando a poca distanza dalla stazione apparvero cinque caccia alleati che iniziarono a mitragliare il treno a bassa quota». Luciana Bassano ricorda ancora il volto di un pilota mentre scende a volo radente sul treno. «Se chiudo gli occhi li vedo ancora gli occhialoni neri del pilota, era vicinissimo a noi, alzai lo sguardo e me lo trovai davanti». I racconti parlano ancora di attimi di paura, dei bambini che si gettano sulla massicciata rimanendo feriti dalle schegge di vetro e metallo, di sassi che cadono, di urla, di pianti. Di uno dei piccoli orfani che - per far forza agli altri - intona “Shemà Israel” (Ascolta Israele).

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Dopo la fuga, ecco che la comunità vadese si apre, pronta ad accogliere questi ragazzini spaventati. Ed è qui che entra in gioco don Antonio Vellutini, il parroco vadese. E’ il primo a dar manforte a Sigfrido, che nasconde nella canonica. Poi, insieme a tante famiglie di Vada, si dà da fare per concedere ospitalità agli orfani tanto che a Vada si scatena una vera e propria gara di solidarietà. Di questa permanenza Luciana Bassano ricorda alcune piccole comodità, per quel tempo: il fatto di dormire, per esempio, in “lenzuola belle pulite”.

Quando nell’estate del ’44 gli americani arrivano a Sassetta e trovano la resistenza dei tedeschi appollaiati sui cocuzzoli con la loro artiglieria, per gli abitanti ma anche per chi - come Sigfrido - è tornato in paese per fare da interprete, sono momenti di grande paura. «I ragazzi dell’orfanotrofio - scrivono Arrigoni e Trovato - per non finire sotto il cannoneggiamento americano, furono fatti preparare alla svelta e di corsa verso il paese, col cuore in gola». Qui vengono accolti da don Carlo Bartolozzi, un prete di idee antifasciste. Il parroco capisce che i giovanissimi ebrei sono in pericolo e li nasconde nella canonica ed in alcune case del paese. Di colpo il rumore dei cannoni cessa. Nella cantina della villa, dove si trovano altri bambini, si sentono passi concitati: «Gesù, o di che razza sono?», urla qualcuno che non vuol credere ai propri occhi. Erano giapponesi. Solo che i giapponesi a Sassetta non si erano mai visti. In realtà erano militari americani di origine giapponese, provenienti soprattutto dalle Hawaii che dopo l’attacco di Pearl Harbor nel ’41 e l’entrata in guerra degli Usa contro il Giappone, avevano sentito il peso della discriminazione e dell’intolleranza benché fossero fedeli cittadini americani. Il l 27 giugno Sassetta era libera.

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Sono passati 72 anni. Ugo e Luciana sono rimasti a Livorno, Laura a Trieste, gli altri si sono persi nel mondo. Alcuni - come Sigfrido - sono tornati in Israele dove il “biondino” cambierà nome in Eli Nizan e proverà l’esperienza del kibbutz, l’anima del sogno della Terra Promessa.Tutti si sono trascinati dietro una valigia di ricordi in questo lunghissimo viaggio dalla casa nel bosco al grande mondo.
 

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