Il Tirreno

Versilia

Il furto della bandiera rossa che incendiò Viareggio

di PAOLO FORNACIARI
Il furto della bandiera rossa che incendiò Viareggio

Il 2 maggio 1921 l’assalto fascista al Circolo dei maestri d’ascia e calafati

03 maggio 2015
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di PAOLO FORNACIARI

Novantaquattro anni fa, il 2 maggio 1921, un gruppo di fascisti assaltò la sede del Circolo dei maestri d’ascia e calafati di Viareggio, devastandolo e asportando la bandiera rossa, vessillo ufficiale dell’associazione, di cui furono perse le tracce per oltre sessant’anni. La storia di questo avvenimento che determinò la protesta di tutto il mondo del lavoro delle darsene viareggine è stata ricostruita nel volume “Viareggio maggio 1921” che raccoglie documenti e testimonianze dell’epoca, pubblicato nel maggio 2011 per iniziativa della Lega dei Maestri d’Ascia e Calafati. Ma vediamo, in sintesi, le fasi di questa storia.

Il 2 maggio 1921, per rispondere ai festeggiamenti che le associazioni dei lavoratori avevano fatto in po’ ovunque in Versilia il giorno prima, i fascisti organizzarono un’adunata a Pietrasanta, con la partecipazione di squadre provenienti da Pisa, Lucca, Livorno e Firenze. Finita la manifestazione, che si svolse tranquillamente, quando le rappresentanze venute da fuori cominciarono a riprendere la via del ritorno, verso le 15,30, poco oltre la stazione di Viareggio, furono esplosi alcuni colpi di rivoltella contro il treno che riportava a Pisa un gruppo di fascisti, ferendo mortalmente lo studente Pacino Pacini.

Appresa la notizia, le squadre fasciste che erano ancora a Pietrasanta ed altre giunte da Pisa si concentrarono a Torre del Lago, dove erano scesi i camerati che viaggiavano con il Pacini, poi insieme raggiunsero in camion Viareggio per una spedizione punitiva.

Gino Guidi, in uno scritto ha raccontato che i fascisti, «giunti all’incrocio con la via di Circonvallazione, voltarono a sinistra e sostarono al Varignano, davanti allo Stabilimento Marmi e Pietre d’Italia. Qui, avendo trovato il cancello principale chiuso, si misero a scalciare e a urlare come forsennati. Per nulla impaurito, si presentò nel bel mezzo di una porticina laterale il guardiano, un vecchio vigoroso, ex navarca ed ex garibaldino. Aveva una spranga di ferro in mano e con quella riuscì a respingere ogni tentativo di attacco. “Aprici – gli urlarono i fascisti – e levati il cappello davanti agli italiani”. Il vecchio, che si chiamava Tono di Paino e che abitava in piazza dell’Olmo, con tono risoluto rispose: “Io non apro e il cappello me lo levo soltanto davanti a Garibaldi e non a delle canaglie come voi”».

Gino Guidi nel suo scritto ricorda anche che «l’episodio del vecchio garibaldino che, armato di clava, urla ai nemici il suo “qui non si passa”, lo rese euforico tanto da commentare gli eventi della giornata canticchiandoli sull’aria della canzonetta di Icilio Sadun “Su, la Coppa di champagne”, dedicando all’assalto al Circolo dei Calafati le seguenti strofe: “Nella zona dei cantieri / c’era il Club dei calafati / i fascisti scalmanati / l’han voluto devastar! / Che prodezza in cinquecento / contro dieci tavolini! / i fascisti, o cittadini / sono eroi a quanto par!”.

Davanti all’atteggiamento deciso del vecchio guardiano, i fascisti desistettero dall’impresa e si portarono in piazza del Mercato, nei pressi della Torre Matilde, penetrando nei locali della Camera del lavoro, distruggendo mobili, documenti e anche la grande lamiera dipinta da Lorenzo Viani che si trovava all’esterno, proprio sopra la porta d’ingresso. Mentre succedeva questo, un gruppo di una cinquantina di fascisti, armati di rivoltelle e qualcuno anche di moschetto, assaltò il circolo dei Calafati, che si trovava in via Coppino, al momento deserto, devastandolo completamente.

Il giorno dopo, Umberto Gabrielli, segretario della Lega Calafati e Maestri d’Ascia, così denunciò il fatto al Commissariato di Polizia di Viareggio: “Ieri, intorno alle ore 18,45, una massa di giovanotti facenti parte dell’associazione del fascio di combattimento hanno sfondato la porta della casa dei calafati e maestri d’ascia, sita in via Coppino, e penetrati hanno devastato ed asportato quanto loro capitava sotto mano. Il danno patito ammonta a circa dodicimila lire”. Alla scorreria, che si concluse con l’asportazione della bandiera rossa, vessillo della Lega dei maestri d'ascia, parteciparono anche alcuni esponenti del fascio di Viareggio.

Pietro Landucci, che abitava in via Coppino, nei pressi della sede del Circolo della Lega, testimoniò: “Riconobbi tale Mauro, fascista di Viareggio, che non so meglio identificare. Egli salì sulla terrazza del primo piano e riuscì a penetrare nel Club. Gettò poi giù nella strada la bandiera della Lega Calafati”.

Idilio Barghini, che abitava in via Ximenes, dichiarò: “Quasi tutti erano forestieri, riconobbi soltanto colui che montò sul terrazzo e che poi uscì con la bandiera: era certo Mauro, che io ho visto frequentare lo Sporting Club e giocare delle partite di calcio nella squadra viareggina. Il Mauro è un giovanotto alto, biondo”. Altri testimoni, Maurizio Luporini, Alberto Bargellini e Edmondo Beruccelli, riconobbero anche l’ingegner Carlo Rocchi, dipendente del Cantiere Ansaldo, che distribuiva biscotti e bottiglie prelevate dalla sede dei Calafati dicendo: “Bevete, bevete, che è roba rossa”, ed Aldo Viti, custode alla Direzione dello stesso cantiere viareggino.

Dalle indagini svolte dalla Questura di Lucca, nel gruppo che partecipò all’assalto del Circolo, furono identificati i fascisti lucchesi Baldo Baldi, Ascanio Lucchesi, Goffredo Pieri, Giuseppe Taddeucci, Renato Benedetti e Lorenzo Grossi. Tutto avvenne senza incontrare resistenza perché in quel momento i lavoratori si trovavano intenti alle loro occupazioni. Compiuta la spedizione i fascisti si allontanarono, mentre la notizia faceva il giro della città.

Il 4 maggio, per reazione i rappresentanti dei lavoratori dei cantieri Darsene, riuniti in Municipio sotto la presidenza del sindaco Giorgio Paci, decretarono lo sciopero generale, ponendo come condizione per la ripresa del lavoro la “restituzione della bandiera asportata dai fascisti dalla Casa dei Calafati e Carpentieri”.

Per porre fine allo sciopero, che si protrasse per diversi giorni con ripercussioni negative sull’economia cittadina, il sindaco di Viareggio, “preoccupato dei danni che ogni giorno risentirebbe l’industria delle costruzioni navali qualora non venisse riprese l’attività dei Cantieri e per ovvie ragioni di pubblica tranquillità della quale Viareggio ha speciale bisogno”, si rivolse al Prefetto perché intervenisse per far restituire la bandiera.

Si andò avanti fino al 16 maggio quando il Questore di Lucca scrisse al Sindaco che “iI signor Scorza Carlo, segretario politico del fascio, ha dichiarato che la bandiera più non esiste, essendo stata fatta in pezzi, distribuiti come trofeo ai soci del fascio e di non essere quindi in grado di restituirla”.

Questa lettera pose fine allo sciopero e sembrò decretare la fine dellla bandiera della Lega. In realtà, la bandiera non fu fatta a pezzi e divisa fra i fascisti che avevano devastato il circolo: così alla violenza si aggiunse l'inganno. La bandiera, invece, fu inviata a Roma e per molti anni è stata dimenticata nei magazzini dell’Archivio Centrale dello Stato. Poi è stata esposta, in una grande mostra allestita nel 1980 al Museo del Risorgimento di Torino, insieme ai vessilli delle organizzazioni dei lavoratori razziati dai fascisti negli anni 1921-22, dove è stata esposta per qualche anno. Quindi, su sollecitazione della Lega dei Maestri d’Ascia e Calafati e grazie all’interessamento dell’Amministrazione comunale, la bandiera è stata restituita alla città ed è conservata ed esposta nel Museo della Marineria di Viareggio, quale cimelio importante della sua storia.

Per concludere, il 13 ottobre 1922, il Tribunale Civile e Penale di Lucca emise la sentenza nella causa intrapresa contro Carlo Rocchi, Salvatore Mauro e Aldo Viti per i fatti derivati dall’assalto al Circolo dei Calafati, condannando il Mauro e il Viti ed assolvendo il Rocchi per insufficenza di prove. Successivamente, la sentenza fu appellata ed entrambi beneficiarono degli effetti dell’amnistia prevista dal Regio Decreto n. 1641.

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