Quel derby calcistico che mise Viareggio in mano agli anarchici
Paolo Fornaciari
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Villa Rigutti: nel parco fu giocata la partita La partita con la Lucchese portò un morto e gravi scontri Il Governo dovette inviare i militari per sedare la rivolta
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VIAREGGIO. Novanta anni fa, nel maggio del 1920, Viareggio visse un'avventura drammatica ed esaltante. Gli incidenti che si verificarono al termine di una partita di calcio furono la scintilla di una violenta rivolta popolare contro le istituzioni, tanto che i fatti di quei giorni sono entrati nella storia, e non solo locale, come le "giornate rosse" Il 2 maggio, anche allora era domenica, lo Sporting Club Viareggio sfidò sul campo di Villa Rigutti l'Unione Sportiva Lucchese. La partita, che aveva tutte le premesse per essere "a rischio", visti anche i gravi incidenti nella gara del girone di andata, fu diretta dall'arbitro lucchese Rossini, mentre svolse le funzioni di guardalinee il viareggino Augusto Morganti, ex ufficiale di complemento in congedo. Il primo tempo si chiuse con la formazione locale in vantaggio di due reti, poi nella ripresa la Lucchese riuscì a pareggiare. A tempo non ancora scaduto, l'arbitro fischiò la fine della gara mentre la Lucchese subiva il gioco dei viareggini. Questa decisione non piacque al Morganti che protestò energicamente, mentre nel campo i giocatori delle due squadre vennero alle mani. Lo spettacolo infiammò il pubblico, e circa quattrocento spettatori si riversarono nel rettangolo di gioco dando origine ad una violenta rissa. Per ristabilire l'ordine intervennero il Commissario di P.S. dottor Martorelli, con alcuni agenti, ed il tenente dei carabinieri Dogliotti, con sette militari, che riuscirono a fatica a portare all'interno di Villa Rigutti i giocatori della Lucchese con il loro esiguo seguito. Alla notizia dell'accaduto, intervenne anche il maresciallo Taddei con sette militari che dispose i militi in "linea di fronte" e comandò di sgombrare il campo. All'avanzare dei carabinieri, la folla indietreggiò, urlando nuove minacce nei confronti dell'arbitro, dei giocatori della Lucchese e della forza pubblica. Poi, quando sembrava scongiurato il pericolo di uno scontro, successe il dramma. Un colpo esploso dal carabiniere Natale De Carli raggiunse al volto, a bruciapelo, Augusto Morganti, ferendolo mortalmente. Alla notizia, una moltitudine di uomini e donne prese d'assedio la caserma dei carabinieri reclamando la consegna di chi aveva fatto fuoco. Il tentativo di giustizia sommaria fu sventato dalla reazione dei carabinieri, che esasperò maggiormente i tumultuanti che si posero alla ricerca di armi. Divisi in gruppi si recarono nei locali del Tiro a Segno, dove s'impadronirono dei fucili, poi irruppero nella caserma del 32º Artiglieria, adiacente alla Torre Matilde, disarmando i militari senza trovare resistenza. Poi, mentre veniva nuovamente presa d'assalto la caserma dei carabinieri, popolani armati, dopo aver percorso le strade cittadine imponendo la chiusura dei pubblici esercizi e interrompendo la circolazione dei tram, occuparono la stazione ferroviaria bloccando il transito dei treni e sbarrarono le principali vie d'accesso con improvvisate barricate per impedire l'ingresso delle truppe, che sarebbero state inviate di lì a poco per ristabilire l'ordine. Gino Sartori, il Commissario Regio che amministrava il Comune di Viareggio, come apprese del tragico epilogo e di come era degenerata la situazione, informò il Prefetto di Lucca che dispose l'invio di un contingente di militari e richiese consistenti rinforzi al Ministero dell'Interno. Nel frattempo i rappresentanti della Camera del Lavoro, dopo aver dichiarato lo sciopero generale ad oltranza, presero in mano le redini della rivolta ed iniziarono, con la mediazione dell'on. Luigi Salvatori, una difficile trattativa con le autorità politiche e militari per il ritorno alla normalità senza conseguenze per chi aveva partecipato ai disordini. L'eco di quanto stava accadendo a Viareggio giunse a Roma in modo frammentato, in ritardo rispetto al rapido evolversi degli eventi, con informazioni non sufficienti a fornire un quadro preciso dell'entità degli avvenimenti in corso. La preoccupazione del Governo fu subito grande, tanto da richiedere al Prefetto e alle autorità militari un'azione di "vigore e di fermezza", ipotizzando anche che dietro i fatti di Viareggio potesse esservi una regia occulta di origine straniera. Il comportamento del Prefetto che scelse la via del dialogo con i rappresentanti dei "rivoltosi" fu valutato negativamente. Con un telegramma di poche righe Francesco Nitti, Presidente del Consiglio, sospese dall'incarico il Prefetto e passò tutti i poteri al generale Nobili con l'ordine di ristabilire immediatamente la legalità. Per tre giorni, dal 2 al 4 maggio, estromessa ogni forma d'autorità, Viareggio fu isolata dal resto del territorio, e mentre sul palazzo del Municipio sventolava il nero vessillo dell'anarchia, improvvisate "guardie rosse" si opponevano dietro precarie barricate allo Stato che, mobilitati esercito e marina, cingeva in assedio la città dispiegando ingenti mezzi, ma anche dimostrando incertezze decisionali ed incapacità d'azione. Poi, dopo i funerali di Augusto Morganti, che si svolsero alle ore 15 del 4 maggio, la rivolta come concertato si placò. I numerosi anarchici, che erano confluiti a Viareggio, abbandonarono la città che fu occupata militarmente nel timore di nuovi disordini. Sempre per precauzione, il Prefetto vietò "cortei pubblici, comizi, assembramenti e la libera circolazione agli automezzi" e questi provvedimenti rimasero in vigore fino alla fine di giugno, con grave danno per la stagione balneare. Nei giorni successivi le forze dell'ordine furono impegnate nella ricerca delle numerose armi che i "rivoltosi" avevano tolto ai militari, perquisendo le abitazioni degli "individui più temibili", scandagliando i fondali delle darsene e del canale, ma degli oltre 100 fucili in mano alla popolazione ne furono recuperati solo 23. Inoltre, tra l'8 maggio e il 12 giugno furono denunciati ed arrestati, con diverse imputazioni (tentato omicidio, resistenza e violenza, formazione di banda armata), quelli che furono ritenuti i "maggiori responsabili" della sommossa: Raffaello Fruzza, Alfredo Santarlasci, Cesare Corrieri, Guido Patalani, Maria Anna Genovali, Rosa Bertelli detta Beghera, Guerrino Fancelli, Uliano Albiani, Lelio Antinori, Gaspere e Pertinace Summonti, Alessandro Bandoni, Alfeo Pelliccia, Gino Gerard, Giuseppe Di Ciolo, Giulio Simonini, Margherita Pivot, Michele Orlando e Romeo Biagini. Nello stesso tempo furono avviate anche inchieste per individuare le responsabilità dei militari e delle forze dell'ordine colpevoli di non aver "mantenuto alto il prestigio dello Stato". Alcuni generali furono esonerati dal comando, diversi ufficiali sospesi dal servizio e posti "agli arresti" e numerosi soldati denunciati al tribunale militare. Per finire, il 13 ottobre 1920, il carabiniere Natale De Carli subì un processo presso il Tribunale Militare di Firenze dove fu assolto per "avere agito per legittima difesa", anche se nel rapporto dell'Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza Gaudino, inviato al Ministero dell'Interno in data 10 maggio 1920, si può leggere: "trattasi di episodio isolato senza conflitto fra popolazione e carabinieri e rimane esclusa provocazione e legittima difesa". Paolo Fornaciari è direttore del Centro documentario storico