Mo: Massolo, 'Israele corre il grandissimo rischio di ritrovarsi isolato'
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Roma, 30 ott. (Adnkronos) - "Dobbiamo sempre ricordare che l'attacco di Hamas è un'edizione israeliana dell'11 settembre, la cosa più grave che sia successa al popolo ebraico dopo i campi di concentramento nazisti". Lo dice all'Huffington Post il presidente dell'Ispi Giampiero Massolo, parlando della fase due della guerra di Israele contro Hamas e sottolineando che "fin dall'inizio Netanyahu aveva parlato di tre fasi. Una prima fase divisa a sua volta in due generi di attività: la ritorsione per l'attacco di Hamas e la preparazione, attraverso un'attività di bombardamenti, di quella che sarebbe stata la seconda fase, lanciata venerdì. Questa fase di bombardamenti era stata preceduta da un invito alla popolazione palestinese a lasciare il nord di Gaza, liberando anche Gaza City, e spostarsi verso sud. Gli israeliani non hanno mai nascosto che questa sarà una fase lunga e complicata, volta alla decapitazione dei vertici di Hamas e alla liberazione del maggior numero possibile di ostaggi”. "Gli israeliani si rendono conto che è molto difficile eliminare Hamas - afferma l'ambasciatore - Intanto perché Hamas, per molti versi, è un atteggiamento culturale e non solo un movimento. In secondo luogo, molti dei capi di Hamas non sono nella Striscia. In terzo luogo, molti militanti di Hamas si confondono e si fanno scudo della popolazione civile. Infine, l'intrigo di gallerie - questa congerie di tunnel che si estende per chilometri e chilometri costruita negli anni - è molto difficile da sradicare completamente. Questo annunciato obiettivo dell'eliminazione, dunque, va letto come decapitazione". "Israele si è trovata a camminare su un crinale molto stretto - prosegue Massolo - Da un lato, la volontà di perseguire i due obiettivi di cui sopra (ritorsione per l'attacco e decapitazione di Hamas); dall'altro, l'esigenza (rappresentata a gran voce dalla comunità internazionale e di cui si è fatto interprete con toni molto accesi il presidente Biden) di evitare che una reazione eccessiva e non proporzionata provocasse una condizione di allargamento regionale del conflitto, fino ad arrivare a ipotizzare come estrema conseguenza un confronto diretto con l'Iran. Allo stato attuale, Israele si è mantenuto al di qua, evitando che la sua attività portasse all'estensione della guerra". "Sul tema della proporzionalità si può questionare a lungo. Io dico solo che, da un punto di vista di quello che sta succedendo sul terreno, questa non è la temuta occupazione di Gaza, quindi un'azione di terra mirata a invadere e occupare la Striscia, ma si ferma prima. È ancora un'attività fatta di bombardamenti e di incursioni, non tale da varcare quel confine che la comunità internazionale (in primo luogo gli americani ma non solo) ha tracciato. La situazione non è tale, in questo momento, da giustificare o far temere una regionalizzazione o una globalizzazione del conflitto. Finora, siamo ancora al di qua e non al di là. Fra gli obiettivi dichiarati di questa seconda fase non c'è l'occupazione di Gaza. E questo, da un punto di vista di quello che succede nel terreno e nella regione, non sembra rendere imminente la temuta estensione del conflitto". "Un'estensione della guerra non conviene a nessuno - dice ancora Massolo - Siamo abituati a valutare questi eventi che stanno sotto i nostri occhi con la lente dell'emotività. Ed è comprensibile: è un conflitto che costa drammaticamente tantissime vite umane. Alla base di tutto questo sappiamo benissimo cosa c'è. C'è un conflitto israelo-palestinese non risolto. C'è l'allontanarsi dell'unica prospettiva che un giorno, forse, permetterà di risolvere un conflitto che non si risolve con le armi, ma con il negoziato, con quella famosa prospettiva dei due Stati che sembrava svanire dai tavoli della diplomazia. C'è una sottovalutazione della causa palestinese, che uscita dalla porta rientra dalla finestra. C'è quel confine sottilissimo - che riguarda in generale la comunità internazionale e in particolare l'Occidente - che passa tra l'antisionismo e l'antisemitismo, tra quella che è la causa palestinese e quello che è un conflitto che contrappone il jihadismo islamico con il mondo occidentale e con gli arabi moderati. Sappiamo tutti che alla base c'è questa congerie di eventi. Però dobbiamo essere anche sufficientemente lucidi per vedere che quello che sta succedendo è uno scontro di interessi molto preciso". "Da un lato, c'è un interesse di politica interna di Hamas, che vuole dimostrare di essere l'unico campione del popolo palestinese, screditando l'Autorità nazionale palestinese e sobillando i palestinesi della Cisgiordania, ponendo in questo modo le premesse per rendere ancora più difficile una soluzione negoziale per mancanza di interlocutori. Dall'altro lato, c'è un interesse eterodiretto che affonda le sue radici nell'Iran, ovvero nella cointeressenza tra iraniani e Hamas. L'idea che gli Stati Uniti andassero conducendo e sviluppando una fase negoziale tra Israele e Arabia Saudita - e quindi un'articolazione degli accordi di Abramo volta a un riconoscimento da parte dei Paesi arabi dello Stato di Israele - chiaramente decapitava e comprometteva la posizione di potenza di Hamas e la posizione di influenza dell'Iran. Hamas si è mossa con questi obiettivi in un momento in cui ha percepito la debolezza di Israele e del governo Netanyahu, che ha le sue colpe, anche gravi, che verranno al pettine a conflitto finito". "La distrazione dal confine con la Striscia di Gaza, con la concentrazione delle forze in Cisgiordania. Sono stati gli eccessi dei settlers a provocare una reazione palestinese e dunque un'esigenza di concentrare gli apparati di sicurezza lì, creando così la possibilità per Hamas di agire. A loro volta, quei settlers si sono sentiti imbaldanziti da una politica del governo Netanyahu molto condizionata dalle forze oltranziste. Questo, a sua volta, corrispondeva con l'interesse di Netanyahu di mantenersi al potere anche per ragioni di tipo personale e giuridico". "L'Iran ha sì l'interesse affinché la situazione si esasperi, a che gli accordi di Abramo cessino, a che Israele - per via del modo in cui reagisce - si isoli nel contesto della comunità internazionale e venga ricompattato contro Israele il mondo arabo, ma non ha interesse che questa situazione di tensione si trasformi in un conflitto regionale aperto. Questo perché, a sua volta, il regime iraniano è sfidato dall'interno, ha grosse difficoltà economiche e non è disposto a compromettere in nome della causa palestinese - che pur dice di difendere a parole - quei rapporti con i Paesi del Golfo che in qualche modo ha ricominciato molto discretamente a tessere e che gli comportano un alleviamento della situazione economica interna. Nella motivazione delle azioni, c'è poco di emozionale e molto di calcolo e di realpolitik". "È l'incognita della terza fase, che prima o poi ci sarà. Una volta decapitato Hamas, bisognerà occuparsi della messa in sicurezza. A quel punto, il territorio della Striscia dovrà avere delle zone cuscinetto (buffer zones) che fungano materialmente da ammortizzatore, consentendo di evitare incursioni come quelle a cui abbiamo assistito e che materializzano gli incubi peggiori degli israeliani. Il vero nodo di questa messa in sicurezza è come ristabilire la deterrenza, cioè come fare in modo che Hamas - preso atto, realisticamente, che non è eliminabile del tutto - non ritenti quello che ha fatto, ovvero la messa in pratica del suo obiettivo di distruggere lo Stato di Israele". "Dato che la situazione non potrà più tornare a quello che era prima, si porranno due problemi. Il primo è chi governerà Gaza. È un problema tutt'ora insoluto, perché Israele, alla fine delle tre fasi, non vorrà governare Gaza e l'Anp non sembra in condizione di farlo. Un'autorità internazionale non è escludibile, ma chi? L'Onu? L'altro aspetto è come, a quel punto, questa questione palestinese che si è riproposta con grandissima forza possa essere negoziata fino a risolverla. Qui siamo nel futuribile: le diplomazie devono porsi il problema fin d'ora, ma allo stato attuale non esistono ancora le condizioni perché si intravveda una soluzione. La posizione americana risponde a tre obiettivi - afferma - Il primo è salvare il maggior numero di ostaggi. Il secondo è che la popolazione civile va risparmiata e vanno assolutamente aiutati i flussi di aiuto umanitario. Il terzo obiettivo è evitare azioni irreversibili e suscettibili di regionalizzare il conflitto, come l'occupazione". "In questo momento, l'attività di Israele - come dicevo prima - non è tale da far ritenere imminente una regionalizzazione. Sotto questo profilo, siamo in una fase in cui nulla è compromesso. Israele corre un rischio grandissimo. Essendo la parte che ha subito un atto terroristico di proporzioni pazzesche, corre il rischio che l'opinione internazionale si giri e di ritrovarsi isolato. Alcuni segnali ci sono già. Non si può fare molto di più che moltiplicare i contatti e cercare di influire con attività di persuasione e buoni uffici. È difficilissimo a conflitto aperto poter fare di più. Pechino ha mediato uno sviluppo diplomatico rilevante, che pure era stato già preparato da altre diplomazie arabe, cioè quello di un ristabilimento dei rapporti tra l'Arabia Saudita e l'Iran. La Cina ha voluto significare di essere un player anch'essa in Medio Oriente, ma in questo momento poco può fare oltre che stare alla finestra, per quanto anche a Pechino non convenga una radicalizzazione e una regionalizzazione del conflitto". "Ciò detto, indubbiamente alla Cina non dispiace che ci si trovi in una situazione che, in qualche modo, mette in difficoltà l'Occidente e i suoi amici". Quanto a Putin, "è senza dubbio colui che sta lucrando maggiormente sul conflitto. L'attenzione sulla guerra in Ucraina è molto diminuita. Questo si aggiunge alla fatica complessiva e alle difficoltà note di una guerra ormai in fase di stallo. Da parte russa, è un bonus insperato quello che sta avvenendo. Sicuramente le guerre in Medio Oriente in generale - conclude - e il conflitto israelo-palestinese in particolare, dividono i Paesi occidentali. Su questo non c'è dubbio: basti vedere le disparità di voto che normalmente si registrano anche alle Nazioni Unite tra Paesi membri dell'Unione Europea. È molto, molto difficile separare quelle che sono le ragioni politiche reali e di realpolitik dal dramma umanitario e dalla tragedia che sta succedendo. La reazione delle opinioni pubbliche è comprensibilmente emotiva, ma non bisogna perdere di vista quello che poi è lo scontro di interessi e politiche di potenza".