Ciclisti, nel 2025 sono 192 i morti sulle strade. Paolo Bettini: «Sull’asfalto troppi rischi, ora pedalo tra i boschi»
L’ex campione tra rabbia e proposte: «Chi utilizza le bici come mezzo di trasporto nelle città dovrebbe essere premiato perché viene esposto a rischi altissimi. Quando invece si parla di amatori il pericolo maggiore è durante l’allenamento»
“Attenzione, strada frequentata da ciclisti”. Per qualcuno potrà sembrava un semplice cartello stradale. Per altri invece è un importante segnale di attenzione verso chi usa la bicicletta e ogni volta rischia grosso. Tant’è che già alcuni Comuni della Toscana hanno aderito alla campagna sulla sicurezza dei ciclisti presentata dall’associazione “Io Rispetto il ciclista” fondata da Paola Gianotti, Marco Cavorso e dall’ex campione iridato Maurizio Fondriest.
Una campagna che nasce per sensibilizzare gli automobilisti per una guida più sicura e soprattutto per un sorpasso a un minimo di un metro e mezzo di distanza rispetto al ciclista, attraverso l’installazione di cartelli di avviso lungo le strade. Nei primi otto mesi del 2025 in Italia si sono registrati 192 decessi. Tantissimi incidenti avvengono in fase di sorpasso. Sulla sicurezza dei ciclisti abbiamo intervistato un campione come Paolo Bettini.
Paolo Bettini, ultimo uomo ad aver portato l’Italia in cima all’Olimpo delle due ruote, è appena tornato da un giro in bici: Riparbella, la zona della Mazzanta, Marina di Cecina e poi di nuovo verso casa «passando dal bosco – dice il “Grillo della California”, 51 anni trascorsi in sella –. Di asfalto – va avanti – ormai ne percorro il meno possibile non solo perché mi sono appassionato alla Gravel (la bici che consente di percorrere strade asfaltate e sentieri sterrati, ndr), in questo modo evito di discutere con gli automobilisti, abbasso i rischi e mi salvo».
Anche perché i dati sono tremendi: un ciclista morto ogni due giorni. Da ex campione e appassionato che effetto le fanno queste cifre?
«Fanno male, molto male. Anche perché indipendentemente dalla mia carriera, sappiamo che il ciclismo come sport è pericoloso, ma non dovrebbe essere così per chi fa attività ludica, di benessere o di trasporto».
In effetti le vittime non sono solo cicloamatori o soggetti che si muovono sulle due ruote in città. Ma di recente hanno perso la vita anche grandi campioni come Davide Rebellin e Michele Scarponi.
«Esatto, per Michele e Davide si parla di professionisti capaci di impegnare la strada in modo coretto. Ma a pagare un prezzo altissimo è anche tutta la catena dei deboli: la signora che va fare la spesa, il pensionato. Tradotto: è un problema sociale, il ciclista è esposto a rischi disumani».
Gli automobilisti per giustificarsi dicono che i cicloturisti vanno in gruppo e invadono la carreggiata. Come risponde?
«Su questo faccio una riflessione in controtendenza: hanno ragione gli automobilisti e credo che in Italia ci sia un problema sociale da scardinare, nato tra gli anni Ottanta e Novanta, quando gli amatori si muovevano in 30 o 40 per le strade sentendosi padroni: contromano, posizionandosi a destra e a sinistra della carreggiata. Insomma, un approccio selvaggio rispetto all’automobilista che se suonava gli veniva risposto col gesto dell’ombrello. Forse questo è il motivo per cui gli automobilisti sono così arrabbiati. Ma l’innesco lo abbiamo fornito noi ciclisti. C’è poi una parte sociale di maleducazione e antidemocrazia che in Italia sta crescendo sempre di più. Ormai viviamo nel menefreghismo. Non è mancanza di rispetto nei confronti del ciclista, è mancanza di rispetto per le regole. Eppure quando gli italiani vanno all’estero ci sentiamo talmente fuori luogo che iniziamo a comportarci bene per non essere esclusi».
Lei ha mai avuto paura o è stato vittima di un incidente per colpa di un’auto?
«Fortunatamente incidenti no, ma situazioni al limite tantissime, direi all’ordine del giorno. Basta fare un esempio. Se sto in strada e non c’è una ciclovia, quando arriva da dietro un camion di 18 metri è fisiologico che stringa verso sinistra. Se non sto attento rischio ogni volta di andare nel fosso, se va bene mi faccio solo male, ma può finire in tragedia».
Che differenza di rischio c’è tra correre in gara, allenarsi, oppure fare la classica girata?
«Chi utilizza le bici come mezzo di trasporto nelle città dovrebbe essere premiato perché viene esposto a rischi altissimi. Quando invece si parla di amatori il pericolo maggiore è durante l’allenamento. Ritengo, invece che la competizione, la gara, sia il posto più sicuro. La caduta in quel contesto fa parte del rischio, lo paragono con tutto il rispetto a quello dei piloti di Formula 1 durante un Gran premio».
Pare di capire che il problema maggiore sia il contesto urbano...
«Esatto. Infatti come Lega ciclismo professionisti e sindacato ciclisti stiamo lottando per far sì che nei quiz per la patente siano inserite domande ad hoc per imparare a comportarsi quando ci sono competizioni podistiche o ciclistiche. Far cambiare atteggiamento agli automobilisti è difficile. Basta vedere come la maggior parte degli incidenti si verifica: il conducente dell’auto invece di guardare la strada è al cellulare e scatta lo scontro».
Facciamo un gioco: avesse la bacchetta magica cosa farebbe come prima cosa per migliorare la sicurezza dei ciclisti?
«Farei grandi parcheggi strategici intorno ai centri delle città e poi farei muovere le persone con il servizio urbano e le bici. Per rendersi conto dei benefici basta andare ad Amsterdam, alla stazione ci sono due milioni di bici in parcheggi multipiano. Qui invece si progetta il Ponte sullo Stretto ma ci si scorda di farci una pista ciclabile».
