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L'intervista

Mostro di Firenze, Pino Rinaldi: «Il killer è solo uno, ecco gli indizi e perché l’ha sempre fatta franca»

di Federico Lazzotti
Mostro di Firenze, Pino Rinaldi: «Il killer è solo uno, ecco gli indizi e perché l’ha sempre fatta franca»

Il giornalista e il giallo che da quasi 60 anni non trova soluzione: «Che Natalino Mele sia il figlio di Giovanni Vinci spiega alcuni passaggi chiave»

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«Il Mostro è sempre stato soltanto uno. C’è un solo responsabile di tutti i delitti commessi in provincia di Firenze tra il 1968 e il 1985. Gli indizi sono chiari. E chi ha raccontato in passato e racconta oggi una storia diversa o non conosce gli atti oppure è in malafede. Pensate davvero sia possibile che una stessa arma, la Beretta calibro 22, possa passare di mano nel corso degli anni e commettere lo stesso reato?». Giuseppe “Pino” Rinaldi, 64 anni, è uno degli ultimi giornalisti italiani ad aver consumato le suole delle scarpe inseguendo i più importanti misteri che hanno attraversato il Paese: dall’omicidio di Melania Rea, fino al suo scoop più famoso, la confessione in diretta di Ferdinando Carretta che all’allora inviato di “Chi l’ha visto? ” raccontò lo sterminio della famiglia dall’Inghilterra. Ma per chi ha visto in faccia il lato più oscuro degli esseri umani, l’inchiesta sul Mostro rappresenta – ammette Rinaldi – «qualcosa di unico, perché sussume le caratteristiche dei delitti che sono stati eseguiti e si faranno. Dentro c’è tutto: depistaggi, costruzione artificiosa della prova, orrori ed errori, colpi di scena e verità nascoste». Proprio come parte del titolo del suo ultimo libro che uscirà a settembre sulla storia dei delitti e che si intitola “Il mostro di Firenze, la verità nascosta”. Un anno dopo “Il mostro è libero (se non è morto)”.

Non le sembra incredibile, a quasi 60 anni di distanza, che il dna sveli che Natalino Mele, scampato all’uccisione della madre e del suo amante, non fosse il figlio di Stefano Mele ma di Giovanni Vinci?

«Non sembra incredibile. È incredibile. Ma questo conferma come esista solo una pista vera e intelligente che purtroppo doveva essere seguita dall’inizio e che invece venne abbandonata per l’orgoglio di Piero Luigi Vigna e di Mario Rotella. Il primo fece arrestare nel 1982 Francesco Vinci, ma il Mostro continuò a colpire, il secondo invece mise in carcere Giovanni Mele e Piero Mucciarini ma anche in quel caso i delitti non si fermarono».

Perché il delitto di Barbara Locci e dell’amante con questa nuova informazione assume un valore diverso?

«Perché spiega alcuni passaggi chiave. Intanto non si tratta di un delitto d’onore come venne inizialmente archiviato. Bensì di un accordo tra le famiglie Mele e Vinci. Un’esecuzione come rivelò il rapporto Torrisi che negli anni Ottanta guidava la compagnia di Ognissanti a Firenze».

Il motivo?

«Sostanzialmente due. Il primo era che Barbara Locci pagava i suoi amanti con i soldi presi da un risarcimento seguito a un incidente e questo alla famiglia Mele non stava bene, il secondo è che la donna negli ultimi tempi non voleva più rapporti con Salvatore e il marito e questo Vinci non lo sopportava».

Quindi la notte tra il 21 e il 22 agosto venne uccisa con l’amante ma il figlio venne risparmiato. Ma chi era sul luogo del delitto?

«Sicuramente Giovanni Mele e Salvatore Vinci. Ci sono indizi che sarebbe stato quest’ultimo a sparare (con la Beretta calibro 22 mai trovata?, ndr)».

Ma Salvatore Vinci non è mai stato arrestato.

«Diciamo che è stato attenzionato, ma mai coinvolto. Eppure qualche sospetto sul suo conto c’era».

Ad esempio?

«Alla morte della prima moglie, in Sardegna, che si chiamava anche lei Barbara, è seguito un processo farsa. Basti dire che si sarebbe suicidata con il gas ma ci sono testimonianze che confermano come la bombola fosse vuota. Qualche dubbio viene».

Quindi Pietro Pacciani e i cosiddetti compagni di merende (Mario Vanni e Giancarlo Lotti), questi ultimi condannati per alcuni delitti?

«Si tratta di mostri costruiti a tavolino per cercare di rispondere alle pressioni che arrivavano non solo dall’Italia per risolvere il giallo».

Ma a distanza di 40 anni dall’ultimo delitto è possibile arrivare alla verità?

«Io non perdo la fiducia. Intanto è stata chiesta la revisione del processo per i delitti attribuiti a Vanni e Lotti. Per l’omicidio di Vicchio (nella foto grande, ndr), ad esempio, gli avvocati Valter Biscotti e Antonio Mazzeo hanno scoperto due testimonianze che raccontano di aver sentito cinque spari alle 21,45 mentre Lotti racconta di essere partito da San Casciano alle 22. Poi ci sono elementi che confermano come la coppia dei francesi, come sostenevamo io e Mario Spezi, sia stata ammazzata il venerdì e non domenica».

Quindi svelare l’identità del Mostro era possibile?

«Se non sono arrivati a scoprire il Mostro è per due motivi: il primo è politico e relativo alla rivalità fra la procura di Firenze e l’ufficio del giudice istruttore, in atto quando fu rinvenuta nel 1982 la pistola presumibilmente usata dal mostro nel 1968. Il secondo è la sparizione dell’unica prova che avrebbe potuto incastrare e determinare senza ombra di dubbio identità e colpevolezza dell’assassino. Uno straccio sporco di sangue e di polvere da sparo che guarda caso è scomparso dall’ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, proprio quando le moderne tecniche di analisi avrebbero potuto identificare il colpevole e far crollare le accuse verso i “ compagni di merende”».

Lei crede che il responsabile dei delitti sia Salvatore Vinci?

«Vinci potrebbe essere il Mostro ma non ci metto la mano sul fuoco. Di una cosa sono certo però: Pacciani e i “compagni di merende” non c’entrano nulla».
 

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