Il "pentito" delle scommesse: «Giocavo 300 euro al giorno, per pagare i debiti mi dissero: “Ora fai una rapina”»
Il racconto choc: dalla prima puntata a 16 anni ai tentativi di smettere: «Ho lasciato la comunione di mia figlia per controllare una puntata, ora quando mi viene voglia vado davanti allo specchio e mi offendo»
La prima scommessa la ricorda bene perché gli ha cambiato la vita per sempre. Era il 1968 e Mario (nome di fantasia ndr) aveva 16 anni. «In sala corse mi portò un amico. Non essendo maggiorenne chiesi a un ragazzo più grande di giocare per me: puntai 200 lire su un’accoppiata, ma sapendo poco di ippica usai la mia data di nascita 11 e 4. La quota era quella massima, pagava 610 volte la posta: vinsi e 120mila lire che a quel tempo erano una bella cifra. Ricordo ancora le persone che intorno mi dicevano: “Bravo, bravo”. In un attimo ero al centro dell’attenzione, ero felice». Per i 50 anni successivi Mario ha rincorso il brivido di quel giorno giocando senza sosta: cavalli, bische, casinò, scommesse sul calcio. «Mai alle slot perché sono alienanti: tu e la macchinetta in un loculo senza finestre. Quanto ho puntato? Una cifra enorme, non potrebbe stare nemmeno nel deposito di Paperon de’ Paperoni. Per anni ho scommesso tra 200 e 300 euro al giorno. Credo che il totale superi i diversi milioni di euro».
Sembra di vedere il film “Febbre da Cavallo”.
«È la mia esistenza. Il problema è che per la maggior parte del pubblico si tratta di un film comico. Per me invece è drammatico, è la fotografia di come ho vissuto: bugie alle persone che ti vogliono bene, soldi presi dal portafoglio di mamma e papà, ritorni in treno dagli ippodromi di mezza Italia facendo avanti e indietro perché non avevo biglietto. Ma anche situazioni spiacevoli».
Tipo?
«Una volta dovevo dei soldi a gente che abitava fuori città. Esco dalla sala e me li trovo di fronte. Mi caricano in auto e mi portano davanti a una tabaccheria. Poi mi dicono: “Ora vai dentro, fai una rapina e ci dai i soldi”. A distanza di anni credo che fosse un atto intimidatorio, ma è stato un brutto. Li convinsi firmando degli assegni post datati».
Ci sono cose di cui si vergogna?
«Tante. Mi sono perfino allontanato dalla comunione di mia figlia per controllare una scommessa. E una volta sono uscito dalla sala corse e ho visto mia moglie fuori che mi aspettava: faceva un freddo incredibile. Mi sono nascosto e ho pensato a quella donna che chissà da quanto era al gelo».
Cosa passava nella sua testa?
«Il giocatore è malato, si sveglia e dice: “Oggi smetto”. Poi però c’è un sentimento di rivalsa, la voglia di rifarsi dalle sconfitte. È dentro a questo meccanismo che scavi voragini enormi. Perché pensi a come procurarti i soldi. E fai di tutto. Io ad esempio una volta ho smesso per cinque anni, poi un giorno mi sono detto: “Gioco un bigliettino”. In un attimo ero di nuovo nel vortice».
E adesso ?
«Non gioco più da cinque anni. Mi definisco uno scommettitore in stand by, mi dà più sicurezza. Se mi viene voglia, e succede, mi metto davanti allo specchio e comincio a offendermi: mi aiuta».
C’è un episodio in particolare che ha innescato questa redenzione?
«Sì, tengo dei laboratori con dei ragazzi, feci uno dei soliti casini con l’affitto della stanza che usavamo e siamo stati costretti a trasferire il corso. Spiegai la situazione e loro mi dissero che mi avrebbero seguito ovunque. Mi sono sentito una merdaccia. Tornai a casa e giurai a mia moglie che non avrei più scommesso. Un mese dopo si presentò alla fine del laboratorio: in mano aveva gli scontrini delle puntate che aveva trovato nella mia giacca».
Da quel giorno non gioca più?
«Esatto, ho intrapreso un percorso con la cooperativa livornese San Benedetto che mi ha aiutato. All’inizio mi hanno tolto la carta di credito, ora me l’hanno ridata. Quando vado al supermercato, pago il conto e mi chiedono se voglio un grattino, rispondo: “Ho già dato, grazie”».
Cosa direbbe a chi è malato di gioco?
«Volete rovinarvi la vita? E gli racconterei la mia storia. Però serve una folgorazione come San Paolo sulla via di Damasco per fare il primo passo e dedicarsi ad altre forme di vita: sport attivo, teatro, la cultura in genere, ma va bene anche coltivare l’orto».
Un’ultima domanda: perché si gioca così tanto?
«Per tanti motivi: per rivalsa, per diventare ricchi, per disperazione. Poi però la vita presenta il conto: io ho perso i denti e ho problemi al cuore. Detto questo credo che se ci fosse una società più giusta, dove non si inneggi sempre al vincitore qualcosa cambierebbe. E poi al gioco si fa troppa pubblicità: pacchi, eredità. Sembra che conti solo vincere».