Il contratto di locazione non registrato è nullo e il canone non è dovuto
Contenzioso sul canone: i consigli dell'avvocata Giulia Orsatti
Il nostro caso è un po' particolare. Io e mia moglie avevamo avuto la casa popolare in maniera regolare tanti anni fa. Abbiamo firmato il contratto, poi quando s’è rotto il tetto ci hanno trasferito in un altro alloggio dove viviamo ora e ci hanno fatto firmare solo un verbale del rilascio ma niente nuovo contratto. Adesso, dopo 37 anni che abitiamo lì, senza che nessuno ci abbia mai detto niente, ci vengono a spiegare che siamo abusivi e che dobbiamo pagare cifre da pazzi?! Ma com’è possibile, scusate?! Ma noi che colpa ne abbiamo?!
Amerigo e Anna
L’edilizia residenziale pubblica è definita come “attività diretta all’acquisizione, alla costruzione o al recupero di fabbricati da destinare ad abitazioni per le persone meno abbienti o per quelle che, dotate di un reddito fisso da lavoro dipendente, non potrebbero reperire un’abitazione ai prezzi di mercato, il tutto a totale carico o con il concorso o contributo dello Stato, della Regione, degli enti pubblici territoriali”.
In merito ai contratti di locazione, la legge prevede che perché sia valido debba essere redatto in forma scritta e registrato. Secondo il Testo Unico sull’imposta di registro (DPR 131/1986), la registrazione deve avvenire entro 30 giorni dalla stipula. A partire dal 1° gennaio 2005, in base alla Legge Finanziaria 2005 (art. 1, comma 346, L. 311/2004), i contratti non registrati sono considerati nulli. Pertanto, qualora il contratto non venga registrato, il locatore non avrà il diritto di esigere il pagamento dei canoni, o meglio, non ha possibilità di agire in giudizio per rivendicare il pagamento (Trib. Roma sez.VI civ., sent.1/10/2014). I coniugi in questione non hanno una detenzione qualificata del bene, che si avrebbe solo in presenza di un contratto regolarmente registrato, ma una semplice situazione di possesso in buona fede, pertanto in giudizio potrebbero far valere l’usucapione in via di eccezione. L’usucapione è un modo di acquisire diritti reali su beni immobili in modo originario, senza bisogno di un titolo o del consenso del precedente proprietario – sulla base della regola civilistica “possesso vale titolo”. Ai sensi dell’articolo 1158 del codice civile, la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali su di essi si acquistano tramite il possesso continuato per venti anni. Perché si verifichi l’usucapione, è necessario che il possesso sia continuo; ininterrotto, cioè non interrotto da eventi che, secondo la legge, possano fermare l’esercizio del possesso; pacifico, ossia non ottenuto con violenza o atti abusivi che abbiano sottratto il bene al legittimo proprietario; manifesto, cioè esercitato in modo pubblico e visibile, in modo che sia noto a tutti o a una gran parte delle persone. Inoltre, per configurarsi come usucapione, il possesso deve essere accompagnato da: volontà di possedere il bene come se si fosse il titolare del diritto di proprietà; esercizio dei poteri propri di un proprietario, come il diritto di usare, godere e disporre del bene; stato di fatto che faccia apparire il possessore come titolare del diritto reale, ossia il comportamento e l’esercizio dei diritti che contraddistinguono il proprietario. In sintesi, l’usucapione consente di acquisire il diritto di proprietà su un bene immobile, ma affinché ciò avvenga è necessario che il possesso sia esercitato in modo continuo, pacifico, manifesto e con l’intenzione di agire come proprietario. Di conseguenza, in sintesi, a fronte della domanda di rivendicazione della proprietà, che richiede a carico del proprietario la cosiddetta probatio diabolica, i coniugi dovrebbero far valere in giudizio l’eccezione di usucapione. La proposizione dell’eccezione non dà luogo ad una riduzione dell’onere della prova a carico dell’attore che dovrà comunque provare i titoli a fondamento del suo diritto di proprietà come se l’eccezione non fosse stata eccepita (Corte d’Appello di Catanzaro Sent. N.421/2021).
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