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Aldo Moro poteva essere liberato: indizi e messaggi dalla prigionia

di Cristiano Marcacci
Aldo Moro poteva essere liberato: indizi e messaggi dalla prigionia

Il 9 maggio 1978 in via Caetani a Roma fu ritrovato il corpo dello statista Dc. La pista dell’anagramma ignorato rilanciata dal libro “Mi sento abbandonato”

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Abbracciamo la storia e, per quanto possibile, la verità. Facciamoci riportare indietro di 47 anni.

Erano le 12,13 del 9 maggio 1978 quando nella casa romana del professor Franco Tritto, collaboratore e amico dello statista Dc Aldo Moro, squillò il telefono. Dall’altra parte una voce che poi fu ricostruito essere quella del brigatista rosso Valerio Morucci: «Non posso stare molto al telefono… Dovrebbe dire questa cosa alla famiglia di Aldo Moro, dovrebbe andare personalmente… Adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro… Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani… Lì c’è una Renault 4 rossa… I primi numeri di targa sono N5».

Era tutto vero. A metà strada tra la sede della Dc e quella del Partito Comunista Italiano, la Renault 4 c’era, con dentro il cadavere. Si conclusero così, nel modo più tragico, i 55 giorni di prigionia del cinque volte presidente del Consiglio dei ministri e presidente della Democrazia Cristiana. A distanza di tantissimo tempo da una delle pagine più drammatiche e oscure dell’Italia del dopoguerra, si può dire con certezza che non fu fatto abbastanza per salvare il giurista e politico. Lo fa capire bene il libro uscito per Solferino nei giorni scorsi, “Mi sento abbandonato”, scritto a quattro mani da Claudio Martelli, esponente di spicco del Partito Socialista Italiano di allora e braccio destro di Bettino Craxi, e da Francesco De Leo, giornalista professionista che si occupa di attualità internazionale per Radio Radicale. Nella prima parte del libro Martelli ricostruisce le settimane successive al rapimento in cui affiancò Craxi nel tentativo politico di salvare la vita al leader democristiano: una lucida riflessione sulla «trattativa», che si contrappose alla linea della fermezza scelta dal governo e segnò la profonda divisione del Paese in quel tragico passaggio. Nella seconda parte, De Leo indaga invece sui retroscena della vicenda nei dettagli, attraverso le testimonianze inedite di alcuni dei protagonisti di allora (Franco Piperno, Claudio Signorile, Aldo Tortorella, Giovanni Pellegrino, Massimo D’Alema, Luigi Zanda, Valerio Morucci), e ricorrendo a documenti come il memoriale dello stesso Craxi e il diario inedito di Amintore Fanfani, allora presidente Dc del Senato.

“Mi sento abbandonato” rilancia anche, in modo energico, la tesi seguita dal professor Carlo Gaudio nel suo libro “L’urlo di Moro”, secondo cui nelle sue lettere dalle prigioni lo statista Dc inviava messaggi cifrati che nessuno fu in grado di recepire o non volle recepire. Moro, cioè, provò a fornire degli indizi, sfuggendo allo scrupoloso controllo delle lettere all’esterno da parte dei brigatisti. In una missiva personale per l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, guarda caso strenuo difensore della linea della fermezza e tra i principali sostenitori dell’ipotesi secondo cui le lettere di Moro non fossero in realtà sue, il “prigioniero” scrisse questa frase: “che mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. Una frase apparentemente enigmatica che, però, secondo Gaudio, era quasi un perfetto anagramma di quest’altra: “e io so che mi trovo dentro il p.o. uno di Montalcini n.o. otto”. Moro comunicò l’esatto indirizzo del luogo in cui lo tenevano segregato? Forse sì, dal momento che a Roma in via Montalcini 8 all’interno 1 si trovava proprio uno dei covi delle Br. Che il presidente Dc avesse voluto fornire dei particolari per permettere di essere liberato e salvato erano convinti, del resto, anche Leonardo Sciascia, nel suo “L’Affaire Moro”, e lo storico Miguel Gotor nel libro “Moro: lettere dalla prigionia”: quel “dominio pieno e incontrollato” poteva anche significare un “condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia”.

Quindi? Non ci fu la volontà di trovare e salvare Moro? Forse fu così. In via Montalcini come in via Gradoli.

Era il 18 marzo 1978, due giorni dopo la strage di via Fani e il rapimento, quando gli inquirenti ricevettero una segnalazione da parte di una donna che viveva in un condominio di via Gradoli 96 e che riferiva di sentire rumori sospetti provenire, sia di giorno che di notte, da un appartamento. I poliziotti decisero di verificare la segnalazione, ma nessuno aprì a quella porta e loro se ne andarono. Il 2 aprile un’altra stortura: a Bologna tre professori universitari, tra cui Romano Prodi, organizzarono a scopo di divertimento una seduta spiritica da cui emerse il nome “Gradoli”. Lo stesso Prodi lo riferì alle forze di polizia, ma queste, senza neppure dare uno sguardo allo stradario di Roma, decisero di “rastrellare” il paese di Gradoli, in provincia di Viterbo, nelle vicinanza del lago di Bolsena. Che Moro effettivamente fu tenuto prigioniero in via Gradoli a Roma venne confermato il 18 aprile, quando i vigili del fuoco irruppero nell’appartamento al numero 96 per una copiosa perdita d’acqua che si rivelerà poi essere causata da un rubinetto della doccia “misteriosamente” lasciato aperto, appoggiato a una scopa e con la cornetta rivolta verso il muro, con l’intento di creare delle infiltrazioni e di far scoprire il luogo.

Solo uno dei tanti rebus irrisolti che la tragica fine di Aldo Moro si trascina dietro da quasi mezzo secolo.

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