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Dillo al direttore, il Giorno del ricordo: i racconti di due lettori

Dillo al direttore, il Giorno del ricordo: i racconti di due lettori

Ecco gli interventi dei lettori pubblicati sul giornale di sabato 10 febbraio: è possibile dialogare direttamente con il direttore Cristiano Marcacci attraverso il canale WhatsApp e l’indirizzo mail dedicati

10 febbraio 2024
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Ecco gli interventi dei lettori pubblicati sull’edizione cartacea di sabato 10 febbraio, nella pagina dedicata al filo diretto con il direttore de Il Tirreno, Cristiano Marcacci. “Dillo al direttore” è l’iniziativa che permette alle persone di dialogare direttamente con Cristiano Marcacci, attraverso il canale WhatsApp (366 6612379) e l’indirizzo mail dilloaldirettore@iltirreno.it. Lettrici e lettori, dunque, possono inviare suggerimenti, spunti di riflessione, segnalare disservizi, ingiustizie e notizie da approfondire. Tutti riceveranno una risposta dal direttore.


La mia famiglia tra i profughi, i grandi errori degli uomini devono essere raccontati

di Shamira Gatta

Prima di giudicare e puntare il dito dovremmo metterci nei panni degli altri, la vita ci insegna che una verità non è mai bianca o nera, ma composta da varie sfumature.

Nel primo dopoguerra sono centinaia le famiglie d’Istria e Dalmazia che hanno dovuto abbandonare la loro terra per salvarsi da Tito e le sue milizie, non erano fascisti, quelli veri se n’erano già andati via da un pezzo, molte famiglie erano miste, come una parte della mia che era arrivata a Cherso dalla Russia nel 1800; tutti patirono il ventennio, come in una qualsiasi regione d’Italia, anche quelle terre videro deportazioni e resistenza, ed accolsero i liberatori o si unirono a loro, ma caduta una dittatura se ne instaurò un’altra, fatta non da quegli ideali di libertà che prendevano piede nella penisola, ma di dolore, fame e violenza, perpetuata per anni e nel silenzio a discapito di tutte quelle famiglie che nessun legame avevano con la politica, non una vendetta per i crimini fascisti, ma una pulizia etnica di quei territori che da secoli erano abitati da persone che parlavano Italiano, che avevano disertato la chiamata dell’esercito Austroungarico durante la prima Guerra mondiale per combattere per l’Italia, territori dove, citando una canzone “anche le pietre parlano italiano”, tra leoni di San Marco e resti romani, storie di terre di confine legate tra loro, etnie diverse che l’amore ha unito e la storia diviso.

Sarebbe ora di finirla di strumentalizzare e buttare in politica una tragedia che ha visto fin troppe vittime innocenti, ancora oggi leggo parole di chi vuol mettere i numeri sulla bilancia come se esistessero vittime di serie “A” e di serie “B”, o come se una tragedia potrebbe definirsi tale solo in base al numero delle vittime, ma quando si parla di innocenti non si può fare paragoni, o soffermarsi a scusare l’aggressore puntando il dito contro la vittima, il carnefice va condannato, sempre e senza scusanti.

Tito incaricò i suoi soldati di «risolvere il problema» di quelle persone che non approvavano l'annessione dell'Istria alla Jugoslavia e di eliminare ogni traccia di italianità; i titini fecero migliaia di morti gettandoli nelle foibe o lasciandoli annegare in mare legati ad una pietra, una verità che per anni è stata negata, e che molti italiani ancora negano. Certo, c'è differenza tra sentirne parlare in televisione, e sentir raccontare la propria nonna, ancora spaventata, a distanza di anni, anche solo di parlare a voce alta per strada («non si poteva parlare, c'era paura anche a bisbigliare in casa, sottovoce, venivano di notte e ti portavano via»).

La mia famiglia è arrivata in Toscana nel 1949, per 3 anni è stata nel campo profughi di Migliarino, poi spostata altri 2 anni alle ex colonie di Calambrone e infine mandata a Livorno, città che li ha accolti e ha visto nascere le nuove generazioni, città che non si può non amare e di cui parlo con orgoglio in ogni mio libro. “Per non dimenticare”, che sia ben chiaro, che gli eventi tragici debbano essere ricordati, perché i grandi errori degli uomini devono essere raccontati alle nuove generazioni, affinché ricordino, affinché non dimentichino, affinché non si ripeta mai più. È ora di dar pace ai nostri morti. Sotto a destra la famiglia di Shamira con altri ospiti del campo profughi di Migliarino; a sinistra alcuni dei ragazzi del campo; sopra la consegna delle razioni al campo profughi.


La pulizia etnica delle truppe di Tito

di Claudio Tonci

Pola, Fiume, Zara, Abbazia sono nomi di località che oggi, seppur in lingua diversa, rimangono scolpiti nella memoria degli esuli istriani e dalmati, costretti a lasciare le loro terre per sfuggire alla pulizia etnica perpetrata dalle truppe titine che si erano insediate nei territori. Il novanta per cento della popolazione di Pola, fra cui la mia famiglia, lasciò la città con un documento fornito dal Comitato di Liberazione Nazionale (l’organizzazione politica e militare che fu costituita allo scopo di opporsi all’occupazione tedesca e al nazifascismo); si imbarcarono sul piroscafo Pola per raggiungere Trieste e poi proseguire per altre città.

Noi fummo destinati a Pisa, dove mio padre fu collocato in un ente parastatale, essendo fuggiti da un regime comunista. Venimmo bollati come fascisti e discriminati, specialmente mio padre, sul posto di lavoro, anche se con onestà intellettuale va riconosciuto che non mancarono innumerevoli attestati di effettiva partecipazione e solidarietà. I miei genitori furono anche convocati in questura dove furono costretti a lasciare le loro impronte digitali. Era opinione diffusa che l’uccisione di cittadini italiani riguardasse solo quei fascisti che si erano macchiati di atrocità nei confronti della popolazione slava. Uno stretto parente di mio padre che si era riunito ai partigiani titini, seppur comunista e antifascista combattente nelle file slave, non fu risparmiato in quanto italiano, forse gli fu risparmiata la foiba, ma non il plotone di esecuzione. Se anche da parte italiana in passato furono commessi crimini, la ritorsione sui civili inermi non può trovare una seppur minima giustificazione.

Sono passati quasi ottanta anni da quei tristi eventi e i rapporti fra l’Italia e gli stati confinati Croazia e Slovenia si sono normalizzati. Rimane e rimarrà il ricordo per le sofferenze e le umiliazioni che una parte degli esuli fu costretta a subire nelle località istriane. Agli esuli subentrarono popolazioni serbe e croate, ma non per questo furono cancellate le memorie dei nostri connazionali di allora e di oggi. La parola pace è un concetto universale, ancora più sentito da chi ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra. I proclami “Zivio Tito” (Viva Tito) e “Trst je nas” (Trieste è Nostra) sono stati definitivamente rimossi dalla memoria storica di quegli avvenimenti.

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